Capitolo Dieci

16.8K 389 32
                                    

Capitolo 10

Com’è ovvio che sia sogno arcangeli, strani pettirossi e una pantera dagli occhi blu. Quando mi sveglio, decisamente di soprassalto, mi ritrovo con un buffo cappello fatto di peli di gatto e miagolii insistenti, gli occhietti di Mr Bean che mi guardano dall’alto.

«B-b-buongiorno.» Tartaglio. Tartaglio come mio solito. Ho il cuore a mille e un nervosismo che mi fa tremare. Vorrei essere in grado di capire il motivo di tutto ciò, ma l’unica spiegazione razionale che trovo mentre mi alzo dal letto, è che quel mucchio di sogni strani mi ha messo addosso tanta ansia. Cerco di respirare piano, di darmi una calmata mentre stringo forte le lenzuola seduta sul bordo del letto, ma tutto ciò che mi riesce di fare è sperare che i soliti esercizi di respirazione mi aiutino davvero. Ad occhi chiusi faccio appello a tutta me stessa concentrandomi sulle mani, che ancora tremano vistosamente, quindi cerco di distendere i nervi respirando profondamente, immagini mentali pacifiche e rilassate che lentamente mi fanno stare meglio. Resto in questa posizione ancora per qualche minuto, Mr Bean che scende dal letto con un balzo leggero. Si avvicina alle mie gambe, mi si struscia contro, io che sorrido invece di sobbalzare come mio solito. Devo ricordarmi di ringraziare il dottor Cain; queste tecniche di rilassamento funzionano davvero. Un miagolio mi riporta alla realtà.

«Sì, adesso ti apro la porta» mormoro, quindi mi alzo dal letto e giro la chiave nella toppa per lasciarlo andare di sotto ed uscire dalla porticina sul retro, io che invece comincio a decidere cosa mettere. Ah, e dev’essere pure qualcosa di bello perché oggi devo vedere il dottor Cain! Sospiro, il mio guardaroba che è assai sprovvisto di bei vestiti eccetto per quelli eleganti ed inopportuni per la giornata, tipici regali di Caroline o degli altri ragazzi. Dopo una lauta doccia finisco immancabilmente per indossare qualcosa di semplice, scialbo, qualcosa che sicuramente non mi fa giustizia. La gonna a pieghe color caffè abbinata ad una camicetta a fiori dal tessuto leggero, non mi sembra un grande accostamento, però ormai tempo per indossare altro non c’è, quindi inforco al volo le ballerine e mi appresto ad uscire dalla camera. Stamattina niente rito, papà resta a casa, motivo per cui devo sbrigarmi a scendere di sotto e prendere l’autobus.

La mia mattinata è tutta una corsa oggi. E quando arrivo a First Avenue mi tocca pure prendere un taxi sebbene sembri ci sia più traffico del solito, tant’è che com’era prevedibile andiamo quasi a passo d’uomo col risultato che arrivo in ritardo di circa venti minuti.

«Tesoro, ma si può sapere che hai fatto? Ho provato a chiamarti tante volte ma non rispondevi.»

«Ah. Oh beh ecco…» ma ecco cosa? Il telefono l’ho lasciato nell’altra borsa, quindi come avrei potuto rispondere? Mentalmente mi do della stupida all’infinito, poi tra una scusa e l’altra mi metto il grembiule e comincio a lavorare fitto fitto cercando di troncare qualsiasi tipo di conversazione. La mattinata non è cominciata esattamente come avrei desiderato, motivo per cui sto in allerta tutto il tempo aspettando quasi che succeda l’ennesimo inconveniente. Che so, un vaso rotto, un sacco di terra rovesciato, un cliente arrabbiato, o chissà cos’altro. Ma ovviamente non succede nulla. Oddio… e se Landon mi avesse mandato un sms dicendomi che non potevamo vederci? Stupida! Stupida Larisa!

«Qualcosa non va?» Sto quasi per rispondere a Stacy che tutto non va, quando all’improvviso mi rendo conto che prendersela con lei ed alzare la voce sarebbe soltanto da stupidi.

«No, non preoccuparti. È tutto sotto controllo» e sorrido.

Mezzogiorno arriva tra squilli di trombe e agitazioni incommensurabili. Quando Stacy mi dice di chiudere il negozio per poco non scivolo. Lei mi guarda strano, ma fortunatamente non fa domande. Sa delle mie scarse capacità in fatto di coordinazione quando sono agitata, pertanto se non chiede nulla dev’essere semplicemente perché ha capito la situazione. E soprattutto perché sa che tanto non le direi niente, pure se è evidente che c’è sotto qualcosa. Fatto sta che nel precipitarmi fuori dal negozio finisco addosso ad un passante. Per la prima volta non chiedo scusa; penso a darmela a gambe ben sapendo però di esser già in ritardo di circa sette minuti. Inciampo più volte nei miei stessi piedi, e quando finalmente giungo a destinazione cado malamente in terra. D’istinto metto avanti le mani, i palmi che si sbucciano anch’essi nell’attenuarmi la caduta. Fortunatamente non c’è sangue. Mi rialzo alla svelta aggiustandomi gli abiti, ed in un baleno eccomi dentro quest’edificio dalla facciata immensa, tutta vetri lucidi e riflessi del sole. Sto quasi per chiedere dove devo andare quando una mano calda come la lava mi sfiora un braccio. Ed io so, so che sono al sicuro. Anche se ho paura.

{Like a Corset} - NodiDove le storie prendono vita. Scoprilo ora