Capitolo Quattordici

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14.

Com’era prevedibile mi sveglio di soprassalto, in mente ancora immagini confuse di una pantera dagli occhi blu. Dannazione, la devo smettere di parlare col mio gatto prima di andare a dormire! Con fare stanco mi tiro le coperte fin sopra il naso per nascondere uno sbadiglio, Mr Bean che gattona sul letto fino a balzarne giù.

La luce del giorno mi picchia sul viso, mentre dei raggi pigri e caldi salgono lentamente riscaldando le lenzuola, il pulviscolo che volteggia nell’aria in un’allegra danza. Chissà che ore sono… Un momento, ma alle undici non passa Evie a prendermi? Di scatto mi giro verso destra, la sveglia che mi abbaglia con le sue quattro cifre rosse. Le dieci e trentaquattro. Merda! Con fretta crescente mi levo le lenzuola di dosso, Mr Bean che mi fissa con uno sguardo impaurito da sotto al letto.

«Sì, sì, sì, buongiorno anche a te!» gli urlo contro sbrigativamente per poi fiondarmi in bagno e buttarmi sotto la doccia. Ma quando finisco è tardi, troppo tardi per riuscire a scegliere qualcosa di bello e al contempo anche comodo, tant’è che non mi resta altro da indossare che gli abiti portati ieri dalla sorellina di Caroline. Non mi va. Non mi va per niente di conciarmi in quel modo, ma non posso fare altro che infilarmi i pantaloni e guardare il corsetto. Come diavolo si mette questo coso?

«Mammaaaaa!» Urlo a squarciagola, il tono tipicamente piagnucoloso di una bimba di cinque anni. Fisso me, il corsetto, e ancora fatico a comprendere come indossarlo. Mia madre intanto, apre la porta di camera mia con tale impeto da far sobbalzare me e Mr Bean.

«Che c’è? Che succede?»

«Mi aiuti a metterlo?» piagnucolo ancora, e com’è ovvio che sia mi tira addosso lo strofinaccio.

«No dico, ma ti sembra il modo di chiamarmi?»

«Ma mamma sono in ritardo!»

«Un’altra volta ti svegliavi prima!» Che belli i rimproveri dei genitori. Sembrano sempre delle prese per i fondelli. Mamma comunque, dopo mille borbottii e maledizioni varie alla fine mi dà una mano stringendo fortemente i lacci che ho sulla schiena facendo poi un bel fiocco.

«Ecco, adesso sei apposto. Vedi di non chiamarmi più, che se brucio il sugo…» Sì, sì, la lascio andare e senza dire niente riguardo un eventuale ringraziamento, mi accingo a mettere giusto un filo di eyeliner e di rossetto, rosso almeno quanto i fiori del corsetto. I capelli per una volta li lascio così, sciolti e morbidi sulle spalle, nessun gioiello ad ornarmi il collo. Come look non è male, anche se non è in linea col mio carattere. Tuttavia non ho molto tempo per guardarmi allo specchio, perché poco dopo suonano alla porta e so perfettamente che è Evander. Con rapidità infilo i tacchi e arraffando la borsa che ultimamente mi ha regalato Caroline, scendo dabbasso e mi affretto a salutare i miei.

«Accidenti, hai proprio deciso di far morire tutti, eh?» sento borbottare Evie una volta saliti in auto. Mi osserva con uno sguardo strano, a metà tra l’incuriosito e l’affascinato, ed io non capisco se sia davvero la mia mise a fargli quell’effetto o se invece sono io. In questo caso però, sembra davvero che l’abito faccia il monaco, perché sebbene io appaia attraente e sensuale, alla fine non mi sento affatto così. Io vedo soltanto un fisico esile, capelli indisciplinati e pelle decisamente troppo chiara.

«Ma smettila, al massimo faccio ridere i moscerini!» Quella mezza volta che dovrei sembrare elegante e dal look ricercato, ai miei occhi appaio soltanto come una bambolina di porcellana malvestita. Chissà cosa penseranno i familiari di Evander… Spero solo non mi scambino per una prostituta.

«Dovresti finirla, sai? Sei troppo crudele con te stessa. Sei bellissima» dice, ma chissà perché io gli credo poco. Ad ogni modo allungo una mano per ricercare la sua, e appena le nostre dita si intrecciano avverto quella famosa sensazione di calore diffuso frammisto a benessere. Mi lascio così andare contro il sedile, Evie che guida fino a Staten Island.

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