Capitolo Quattro

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4.

Son passati circa quattro giorni dall’ultima volta che sono andata dallo psicologo, e quella storia del pensare a ciò che mi è successo ancora devo capirla. Più provo a riflettere e meno comprendo dove tutti i ragionamenti dovrebbero portarmi. James si è comportato da imbecille. Invece di fermarsi ha rovinato la cosa più bella che condividevamo. Ed io gliel’ho permesso. Come sempre, una parte di me urla a gran voce che non è vero, che io non lo volevo. Tuttavia, la parte forse più razionale di me mi porta a porgermi la stessa domanda di sempre: se io non volevo, allora perché non ho mosso un muscolo?

Ci penso. Ci ripenso. Esco dalla doccia e ci penso ancora una volta mentre asciugo il vetro appannato. Mi guardo allo specchio e ciò che vedo mi fa quasi paura. È una donna sola, stanca, dal fisico più esile di quanto essa stessa ricordi e con qualche cicatrice lungo il corpo. L’accappatoio le copre tutte, ma io so che ci sono. Le vedrei anche ad occhi chiusi.

«Perché non ho fatto niente?» sussurro al mio riflesso, la mancina che solca il vetro come se potesse davvero toccare la fredda gemella.

«Perché non ho fatto niente?» sussurro ancora, e sul mio riflesso scorgo la disperazione in quello sguardo di smeraldo, i lunghi capelli aranciati appiccicati al viso che grondano acqua. Ai miei piedi, un piccolo laghetto limpido. Calo lo sguardo, ed improvvisamente mi dico che qualcosa l’ho fatta. Ho sempre lottato contro quel lato malato di James, perché io non volevo che mi ferisse. Ho graffiato e ho morso quando voleva farmi davvero male. Ho combattuto con tutta me stessa prima che potesse davvero mandarmi al tappeto. Ho sfibrato la mia coscienza nel ripetermi che tutto ciò non sarebbe più accaduto. Ho sfidato me stessa nel cercare di resistere e stargli accanto quanto più possibile… Decisamente, io qualcosa l’ho fatta. Lentamente sollevo lo sguardo. Mi fisso al di là dello specchio. E ciò che i miei occhi vedono ora, è un sorriso. Dopo tanto tempo, un sorriso vero. Adesso ho capito cosa intendeva il dottore.

«Larisa!» Di colpo mia madre mi riporta alla realtà bussando contro la porta del bagno. «Larisa c’è Caroline a telefono!»

«Arrivo!» ma non finisco di dirlo che già sto allungando una mano per strapparle il cordless.

«Si può sapere dove ti eri cacciata?»

«Se ti dico che la doccia mi ha rapito, ci crederesti?»

«Se mi dici chi c’era insieme a te, sì. Potrei davvero crederti» ma non ho tempo neanche di risponderle, che già arriva una scarica di frasi tipica di Caroline, una caterva di roba inutile contornata di strilletti e moine varie. «Insomma, hai capito? Mi porterà ad un concerto!»

«Sì, di pianoforte. A teatro. Quindi?»

«Quindi devi assolutamente aiutarmi! Come faccio a non addormentarmi? Ma sai cosa succede se mi addormento in sala e… e… e metti che il mio vicino sia Brad Pitt? Che figura ci faccio?»

«Il tuo vicino non sarà mai Brad Pitt!»

«Sì, ma io ci faccio ugualmente una figura pessima! Non posso andare a teatro! Guarda, guarda le mie braccia, già mi sta venendo l’orticaria! Tu mi devi aiutare! Sei l’unica a cui posso chiederlo. Dopo la storia con quello spagnolo Marcus non vuole sentir parlare di pianoforte, e sai benissimo che a Marika non piace Nicholas! Tu sei l’unica che può aiutarmi! Ti prego dimmi di sì! Era un sì, quello vero?»

Sospiro pesantemente rovistando nell’armadio. Alla fine socchiudo gli occhi e sbuffo fuori un «Sì» che del resto era esattamente ciò che lei voleva sentirsi dire. Un urlo di gioia nient’affatto contenuto mi costringe a staccare il telefono dall’orecchio, ma a quanto pare pure a distanza di sicurezza il mio timpano vibra dolorosamente.

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