Capitolo 15 di Anita Hamilton

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Mi chiedevo quanto fosse bastardo il destino quando ti ritrovi a fare i conti con i sensi di colpa incessanti. Quando pensi che qualsiasi azione compiuta abbia solo rubato tempo prezioso e lasciato nulla di importante.

La sveglia a forma di panda posta sul comodino segna le cinque del mattino. Ho fatto finta di chiudere gli occhi per permettere a Violet, sdraiata al mio fianco, di addormentarsi più tranquilla. Se non avessi chiuso occhio, probabilmente non l'avrebbe fatto neppure lei.

Le sono grata per tutto quello che ha fatto per me. Mi ha aiutata molto, mi ha donato un po' di sollievo e mi ha fatta sentire meglio, nel modo in cui nessuno, in quelle condizioni, avrebbe potuto mai fare. Ma adesso che il buio mi circonda e i pensieri mi ronzano per la mente non riesco a reprimere le mie emozioni negative, né tanto meno le immagini nauseanti che si alternano davanti ai miei occhi. Tutto quello che è accaduto nelle ultime ventiquattro ore giace nel mio stato d'animo e lo tormenta.

È sempre stato così, da quando ne ho memoria. Tra un centinaio di scelte giuste io optavo sempre per quell'unica scelta sbagliata. E poi, a pagare inevitabilmente le conseguenze non ero soltanto io, ma spesso anche le persone che amo più di me stessa.

"State tutti a guardare, arriverò in cima e prenderò quella palla prima che voi possiate aprire bocca!" Mio cugino e i suoi amici erano così piccoli visti da lassù. E io ero così contenta di dimostrare loro di essere forte e agile anche se ero solo una bambina.

Arrampicandomi ramo dopo ramo, sentivo come di poter toccare il cielo con un dito...peccato che non avessi messo in conto che la mia goffagine e sbadataggine mi avrebbe soltanto condotta a schiantarmi al suolo un attimo prima di sfiorare la palla.

"Anita, stai attenta!"

Quel giorno se non fosse stato per mio cugino, pronto ad afferrarmi e a mettermi al sicuro, forse non sarei neppure qui.

Io mi slogai il polso e la caviglia, mentre lui si ruppe una gamba. Mio cugino vive con una placca di ferro nel polpaccio perché io volevo mostrarmi coraggiosa, mi credevo forte e invece dimostrai soltanto di non avere buon senso.
Che bambina illusa, che ragazza inconsapevole, che donna deludente.

"Mi dispiace!" Piangevo e gridavo, mentre a pochi metri da noi, la palla era caduta e, adesso, rotolava via.

Alle medie le cose non cambiarono.

"Hai dei vestiti orribili e i tuoi capelli puzzano. Tua madre non ti ha insegnato la buona educazione? Forse è per questo che tuo padre vi ha abbandonate" la ragazzina antipatica parlava e tutti gli altri ridevano. I miei pugni serrati lungo i fianchi, la mia testa china, gli occhi lucidi e le guance rosse per la rabbia.
"Sei una strega"
"Cosa hai detto?"
"Ho detto che sei una brutta strega!"
Le andai contro, persi la ragione e mi avventai su di lei tirandole le treccine ordinate. Ci acciuffammo tra i suoi gridolini striduli ed io ebbi la meglio, ma non scampai a rimproveri, provvedimenti e conseguenze. Il tutto, ovviamente, a danno di mia madre.

"Sua figlia è una bestia, le sembra normale avere un comportamento simile? È davvero inappropriato!" Sissi piangeva tra le braccia della madre, che con aspre parole insultava la mia.
Ed io avrei voluto sprofondare anziché recare un dolore del genere alla mia mamma.

"Mi dispiace molto per quello che é accaduto, parlerò personalmente con mia figlia. Non accadrá più" Si scusava mortificata la donna, davanti alla preside.

Avendo alzato per prima le mani non importava cosa avesse fatto lei, io ero nel torto piú completo. Mia madre passò notti intere a ricucire il vestito strappato della ragazza, non guadagnando nulla in cambio.

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