Capitolo 13 di Ashton Taylor

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Sono ancora perennemente imbronciato, nervoso e teso come la corda di un violino quando sento una voce familiare provenire dal fondo della strada.

«Perfavore tizio sconosciuto non mollarmi proprio ora, siamo quasi arrivati!» Sento questa frase masticata tra i denti, segno della fatica immane a cui si sta sottoponendo la proprietaria.

Questa voce potrei riconoscerla ovunque, ormai colei a cui appartiene galleggia nel mare dei miei pensieri per la maggior parte del tempo.

Non c'è nulla da fare, le cose che mi infastidiscono non riesco proprio  a mandarle giù. Sì, perchè l'unica spiegazione che posso darmi è quella di averla presa così tanto in odio che il suo pensiero ha deciso di perseguitami per vendetta.

Cosa ci fa lei ancora qui a quest'ora? E poi cosa diamine sta facendo?

Potrei lasciar stare e tornarmene a casa mia, dal momento in cui ho già abbastanza problemi per la testa, eppure c'è qualcosa che mi impedisce di distogliere lo sguardo e andare avanti facendo finta di nulla.

«Se cadiamo di nuovo non riuscirò più ad alzarti, dannazione! Oh no...tirati su! Destra o sinistra? Dove devo proseguire?» man mano che mi avvicino le parole mi risultano sempre più chiare e da lontano scorgo due figure, rese oscure dal buio circosante.

Dopo qualche secondo tutto riprende le proprie sembianze e la ragazza sta praticamente rischiando di essere sopraffatta dal corpo accasciato di ... aspetta, quelli sono i capelli biondi di Dylan?

Velocizzo il passo fino ad affiancarli e, assicuratomi della sua effettiva identità, tento di prenderlo su di me facendomi passare il suo braccio penzolante intorno al collo.

La ragazza non si è accorta della mia presenza fino a quando non tento di toglierle il peso di dosso. Inizia a gridare dallo spavento per poi inveirmi contro.

Parla così velocemente che di ciò che dice capisco al massimo due o tre parole e per altro quel poco che comprendo basta ad irritarmi più di quanto già non sia.

«Maniaco che non sei altro, lasciaci subito, se lui non si risveglia ci penso io a prenderti a pugni!» si dimena più che può, pur di allontanare Dylan dalla mia presa, il quale a parte qualche grugnito e gemito di dolore per la situazione creatasi pare essere poco cosciente.

«Ma si può sapere che cazzo è successo?» sbotto alzando la voce per sovrastare la sua.

Quando alza i suoi occhioni neri riesco a scorgere in essi solo un immenso terrore e una gran rabbia. Sembra sgranarli ancora di più quando mi guarda bene e capisce finalmente chi ha davanti.

«Sei tu! Se hai intenzione di derubarci o altro ti stacco le palle, ti avverto eh, ho fatto box per anni!» la sento esclamare.
Se le sue parole possono risultare forti non si può fare a meno di scorgere il tremore del suo corpo causato dalla paura e dal gelo che ci avvolge.

Guarda nella mia direzione, portandosi a qualche passo da me mentre con entrambe le mani e il suo stesso corpo minuto cerca in tutti i modi, con ogni sua forza, di sostenere più di 80 kg di massa muscolare.

La guardo intensamente, studiando velocemente la situazione per quanto mi è concesso.

«Non è il momento di fare la pazza, si da il caso che il ragazzo ricoperto di sangue che, per chissà quale motivo a me ignoto, si trova tra le tue braccia sia il mio migliore amico e che per aiutarlo devo sapere cosa gli è successo» cerco di usare il tono più calmo possibile ma invano, ben presto la mia pazienza va a farsi benedire.

Quando ho a che fare con questa tizia mantenere la calma mi risulta alquanto difficile.

«Dylan, amico, mi senti?» mi avvicino al suo viso e sotto la luce fioca della luna posso scrutare solo due lividi violaceii: uno sullo zigomo destro e l'altro intorno alle labbra spaccate, dalle quali scivola un rivolo di sangue. Per non parlare di quello che sgorga dal naso e dalle nocche delle mani.

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