Capitolo 20 di Violet Price

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Mi sveglia il suono del campanello che riecheggia ripetutamente nell'intera camera, ombreggiata dai raggi gelidi e secchi del sole invernale. Apro gli occhi e scendo dal letto, infilando i miei piedi infreddoliti nelle pantofole di lana. Indosso un cardigan pesantissimo e poi mi do una sistemata ai capelli mentre biascico, con gli occhi gonfi per il sonno e la voce impastata: «Chi è?»

Mi stringo tra le braccia esili, insaccando il collo nelle spalle perché fa troppo freddo. Il mio interlocutore intanto non ha ancora risposto alla mia domanda e io non posso fare altro che slanciarmi sulle punte per provare a distinguere dallo spioncino la figura famigliare di qualcuno. Niente di niente: tutto nero.

«Chi è?» domando ancora una volta, senza ricevere risposta alcuna. Il campanello non suona più da una ventina di secondi, ormai, e ogni rumore sembra essersi dissimulato magicamente.

Se il buongiorno si vede dal mattino, meglio che torni a dormire. Apro la porta perché fortunatamente non sono in uno di quei film gialli e so che non ci sarà nessun assassino pronto ad accogliermi con i suoi avidi occhi e un sorriso aperto sulle labbra. Sbadiglio e poi aggrotto le sopracciglia, assottigliando lo sguardo nel momento in cui mi rendo conto di ciò che è accanto ai miei piedi. Proprio sul tappeto rosso, c'è uno scatolo di cartone marrone a cui è attaccato con dello scotch un biglietto bianco. Non c'è scritto niente, oltre alle mie iniziali. Mi guardo intorno, ma nel corridoio scorgo soltanto una moltitudine di studenti intenti a chiacchierare e nessuno sembra rivolgere silenziosamente il suo sguardo su di me. Resto ferma sulla soglia e apro il cartone con cura, facendo attenzione a mantenere una delle due parti con la mano destra per non far cadere il contenuto. Resto senza parole quando tasto e successivamente afferro il mio cellulare. Sorrido sentitamente. Mi volto e con naturalezza faccio per rivolgermi ad Anita, ma non c'è e me ne rendo conto solo ora che ho bisogno di lei.

Rivolgo un'occhiata fugace al mio orologio, le lancette segnano le ore sedici e quarantacinque e questo significa solo una cosa: ho perso la cognizione del tempo. Lentamente chiudo la porta alle mie spalle e poi faccio ricadere gli occhi sull'accozzaglia di libri disposti disordinatamente sul ripiano spianato della scrivania. Mi avvicino.

Sfoglio le pagine macchiate d'inchiostro e ho un deja-vù. Faccio mente locale e mi concentro scrupolosamente prima di ricordare di averci pianto sopra. Accanto al volume di diritto, c'è una tazza gelida di camomilla e un paio di guanti di lana.

Mi siedo perché mi sembra di aver perso la memoria e di star ricomponendo ogni tassello molto lentamente, sforzandomi a lungo. La redda di pensieri perniciosi che mi circolano nella mente non fanno altro che farmi sentire meno in me. Apro le imposte perché c'è aria viziata e poi alzo le tapparelle, riscoprendo i colori bui del pomeriggio. Poggio la tazza nel lavabo e insapono le posate, lucidando a lungo i bicchieri. Mi tiro via dalla faccia i capelli aiutandomi con il gomito, prima di porre tutto nell'asciugatrice.

Scivolo sul pavimento, diretta verso l'armadio per tirarci fuori una felpa più calda. La mia attenzione ricade sui vestiti ripiegati velocemente dopo la visita a casa di Ash e Dylan. Penso a me, Anita e Steve e alla nostra idea balorda messa stupidamente in atto. Insomma, come ci è venuto in mente?

Penso al modo in cui erano conciati i miei capelli, alla quantità di lacca che ho spruzzato sulla cute per cotonare ogni singolo centimetro e al modo in cui mi sono truccata. Stringo tra le mani il tessuto del fuseaux di pelle e le guance mi si colorano di rosso nel pensare a quanta sprovvedutezza e infantilità ha accompagnato ogni mio gesto da quando Dylan ha messo piede nella vita della mia coinquilina. Il mio problema erano le sue parole. Come avrei potuto credere che un cattivo ragazzo della periferia seriamente avesse difeso una ragazza soltanto per compassione e buon senso? E invece ha avuto ragione lui fin dall'inizio. Non solo: ha anche mantenuto la parola, senza fare alcuna promessa. Il telefono è nelle mie mani e probabilmente i teppistelli hanno avuto una bella lezione. Mi siedo a terra con la mia felpa bianca addosso e nel frattempo spazzolo con le mani i miei capelli lunghi. Ho la testa piena di ricordi e non so come sbarazzarmene. Vedo Ash passarsi le mani tra i capelli scuri sparati ovunque. Lo guardo chiudere le mani in due pugni di ferro e tendere i muscoli, riducendo gli occhi in due spilli dinanzi alla figura di Anita. Rivedo la mia coinquilina con le dita affusolate dinanzi alle labbra rosee, i ricci vaporosi intorno al volto scolorito, i piedi uniti e le gambe tremolanti. Penso a Dylan e ai suoi occhi inferociti, nero come un tizzone. Lo guardo girare sui tacchi e sbattere la porta senza ripensamenti, lasciandosi alle spalle ogni parola e ogni forma di rispetto con tutta l'indifferenza di questo mondo. Vedo il suo ciuffo ricadergli sugli occhi e poi i suoi occhi guardarmi, fermarsi, dirmi di non voler andare via davvero, che c'è una soluzione. Sento i sospiri, le esitazioni, gli indugi. I respiri rilasciati faticosamente, con l'ansia addosso, le vene che pulsano ai lati della gola e gli alveoli che fanno male per l'eccessiva quantità di parole ingoiate.

Come mondi paralleliDove le storie prendono vita. Scoprilo ora