Capitolo 21 di Anita Hamilton

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Non ti lascio, Violet. Non dirmi di farlo, non sperare che io lo faccia. Perché non succederà.

È questo quello che vorrei dirle, mentre con i gesti esprimo ogni parola che riecheggia nelle pareti della mia mente.

«Anita ma si può sapere dove mi stai portando?» mi domanda Violet, esasperata. Si trova alle mie spalle, segue incessantemente il mio corpo a causa della mia mano ancorata intorno al suo braccio destro.

«Anita, per la miseria, dammi una risposta!» esclama quando ci avviciniamo a Mike, il tizio con il cappello da tennis che controlla le entrate e le uscite al college. Gli faccio un cenno con il capo e lo saluto distrattamente con una mano, mentre lui ricambia svogliatamente.

Questa mattina avevo parlato con Fiore per convincerla a cedermi un permesso straordinario. Tutto è andato secondo i piani, ho programmato ogni cosa.

«Tranquilla, Violet. Andiamo in un posto speciale»

«Ma non possiamo allontanarci dal college così, all'improvviso. E poi cosa sono questi zaini?» la perplessità e la confusione le solcano il viso teso.
Continuo imperterrita nella mia missione: raggiungere la meta.

«Anita, non ti sopporto quando m'ignori in maniera tanto palese!»
Mi fermo di scatto e lei, inevitabilmente, finisce contro la mia schiena.
«Ma sei pazza?» mi volto nella sua direzione, prendendole anche l'altra mano.

«Non devi preoccuparti di nulla, non c'è nessun problema che io non abbia già risolto. Fidati di me, per favore.» i miei occhi sondano la sua reazione attentamente. Vorrebbe ribattere, ma poi sceglie di tacere. Semplicemente, annuisce. Troppo stanca per discutere ancora, troppo ferita per permettersi altra sofferenza.

Violet è irriconoscibile.

È costantemente nervosa, tesa come una corda di violino. Parla poco, sorride anche meno. Non tocca cibo da giorni, passa ore e ore rinchiusa in bagno a studiare, rileggendo cinque, dieci, venti volte la stessa pagina senza concludere niente di niente. Violet è qui ma, mai come adesso, lei non è davvero qui.

E io so di chi è la colpa e lo sa bene anche lei: David, il suo presunto ragazzo, o meglio "ex".
Ma so anche che c'è dell'altro. Il sangue scorga da una sola ferita, ma il dolore non si avverte mai in un unico posto.

Riprendiamo il percorso con costanza ma, sicuramente, più serene. Violet mi segue in silenzio, di tanto in tanto si guarda intorno. Resta in silenzio anche quando fa scivolare una bretella di uno dei degli zaini che barcolla sulla mia schiena a ogni passo per appropriarsene lei. La ringrazio con un cenno, poi andiamo avanti.

Davanti a noi si estende nella sua immensità una delle spiagge di Chicago e, nonostante le tenebre dell'oscurità rimango incantata difronte alla maestosità della sabbia spropositata che abbraccia la pece del mare, simile a un buco nero.

Sempre tenendola per mano la esorto ad avanzare al mio fianco, verso il bagnasciuga. Inizialmente sembra esitare, come se la sabbia scottasse ancora o le onde potessero scalfirla.

Mi siedo e mi tolgo le scarpe, immergendo i piedi nell'acqua tiepida. Con regolarità, piccole onde mi accarezzano delicatamente le caviglie nude.

«È la prima volta che vedo il mare» affermo, sorridendo.

«Ti piace il mare, Violet?» le domando estasiata, mentre lei osserva l'immensa distesa. Annuisce col capo e, avvolte dal silenzio, ci lasciamo andare a brevi attimi di pace. Chiudo gli occhi e tutto si approssima: il rumore gracile delle acque che bagnano la sabbia, lo schiumeggiare repentino che solletica le piante dei piedi, il respiro emozionato di chi per la prima volta lascia che le preoccupazioni e le ansie sprofondino nelle onde. Con la consapevolezza che il mare le trascinerà via con sé, nelle profondità degli abissi.

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