Capitolo 7.

120 11 8
                                    

Il timbro di voce rimbalza altisonante tra le solide pareti del mio cervello con la stessa potenza con cui una palla da ping-pong sfreccerebbe su un tavolo da gioco.

Con la coda dell’occhio trovo il coraggio di guardare in volto il tipo che ho distrattamente urtato e, in una rapida occhiata, la mia teoria viene avvalorata da una serie di riscontri: pepite dorate scintillano nelle sue iridi che paiono assumere un tono caramellato per effetto della luce solare e labbra carnose e rosate si schiudono in un sorriso buffo sotto un paio di baffetti accuratamente definiti.

Il mio sguardo, per un attimo, rimane fisso su quei soli elementi facciali come piegato da una forza esterna e imprescindibile.

Mi occorrono alcuni minuti prima di batter ciglio e ampliare la visuale ai restanti particolari. Non appena lascio che i miei occhi si posino sul vestiario del giovane uomo che ho investito, avverto un leggero tuffo al cuore: camicia verde a quadri, cappello beige calato sulla testa riccioluta e la custodia di una chitarra che fa capolino da dietro la spalla destra.

Soltanto lui può essere.

Complimenti genio, ti sei appena guadagnata il primato di miglior figuraccia nei Guinness World Records!

Un sogghigno appena percettibile mi distoglie per un po’ dalle mie attuali preoccupazioni. «Be’, il gatto ti hai mangiato la lingua?» domanda con fare retorico tendendomi una mano. Esitante la afferro dopo essermi scrollata di dosso una manciata di polvere e pietruzze.

Vergogna ed imbarazzo tingono le mie guance ambrate della tonalità di rosso più acceso che la scala cromatica possa rappresentare; mentre una zaffata d’aria calda mi investe in pieno soffocando ogni mio vano tentativo di pronunciare almeno un suono vocale.

«Scusami… i-io non volevo.» Ci mancava solo la balbuzie a completare un quadretto fin troppo grottesco.

«Tranquilla, l’importante è che tu stia bene. Perché stai bene, vero?» Mi guarda preoccupato reclinando il capoccione in modo da incontrare i miei occhi e assicurarsi che fosse tutto apposto.

Annuisco. «Sì, grazie.»

Tra una battuta e l’altra intercorrono lunghi momenti di pausa tali da farmi desiderare di essere altrove e, come se non bastasse, ci si mettono i suoi sorrisi appena accennati a dimostrazione del fatto che gli sto dando noia.

«Comunque io sono Emanuele.»

«G-Giorgia» ricomincio a balbettare allo sfioramento dei nostri palmi.

Ora che ci penso è ciclopico!? Sarà come minimo un metro e ottantacinque se non di più e la mia statura, rapportata alla sua, mi fa sembrare una comune ragazza affetta da nanismo.

«Ma ti chiami davvero “G-Giorgia”? Fighissimo!» esclama ridacchiando alla sua medesima battuta sotto il mio sguardo accigliato.

Be’, di cosa ti meravigli? E’ risaputo: gli uomini maturano col tempo. Un po’ come il vino che acquista un gusto migliore soltanto dopo anni di stagionatura.

Non posso far altro che unirmi alla sua risata.

Ancor prima che ci si ricomponga, scorgo un piccolissimo accessorio che spicca sul lobo del suo orecchio sinistro: un piercing.

E quello da dove spunta adesso? Non ricordo ne avesse mai avuto uno.

«Quando lo hai fatto?» gli chiedo senza mezzi termini.

Il silenzio torna a regnare sovrano mentre sulla sua fronte corrugata la mia fantasia ci intravede un gigantesco punto interrogativo. Gli ci vuole qualche secondo prima di capire a cosa alludessi: «Ah, dici questo! L’ho fatto tre giorni fa, ti piace? Aspetta, come fai a...»

PulseDove le storie prendono vita. Scoprilo ora