Capitolo 4.

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Una spessa coltre di nebbia giunge a sovrastare i pendii di una collina dai sottili e lunghi filamenti giallo paglierino, fino a spandersi al di là di quelle alture e scendere in picchiata verso un imponente edificio.

Un boato di bisbigli e scalpiccii esplode in ogni dove intervallato da lamenti gutturali e gemiti soffocati.

Odore di disinfettante va ad intaccare le narici dei presenti ormai inermi al fastidio e al bruciore causato, o perché magari  troppo impegnati a fare i conti con qualcosa di maggiormente insostenibile.

Un solo colore domina lo scenario interno della struttura: il bianco. Bianche le pareti, bianche le panche vuote e le altre occupate da individui più simili ad ominidi rattrappiti nel loro minuscolo involucro tutt’osse. Bianchi i camici che svolazzano al passaggio di chi il peso della vita lo porta in groppa come il più prezioso dei tesori che ci sia stato donato.

Il candore si riflette spaventosamente ovunque l’occhio dell’osservatore vada posandosi, ma nulla di piacevole si evince dalla tonalità fredda come il marmo di una lapide.

Lapide?

Quale strana associazione di parole richiami un colore che a tutti gli effetti simboleggia la purezza!

Questa volta è il ripetersi di un suono acuto e intimidatorio ad attirare l’attenzione.

Una stanza ed un letto si palesano all’istante. Vi è una sagoma in quello stesso letto che giace sospesa tra l’al di qua e l’al di là. La sua vita è regolata da un elettrocardiogramma che ne registra la frequenza cardiaca.

“Tu-tum, tu-tum”

In risposta a quell’ultima immagine, il mio busto si torce violentemente su se stesso. Gli occhi sbarrati e madida di sudore, sento che le forze faticano a tornarmi. Lascio che il torace si contragga verso l’interno e si gonfi al rilascio dell’aria nei polmoni. Avverto una strana fitta al petto come se l’incubo mi avesse privato del respiro o la paura stessa mi avesse obbligato all’apnea.

Mi rimetto in piedi ben contenta di vedere le mie gambe riuscire a sorreggere il peso di un corpo vacillante. Dalla sala mi sposto in cucina - ultimamente finisco sempre per appisolarmi sul divano - apro il rubinetto ed infilo un bicchiere sotto il potente getto d’acqua. Nella foga di mandare giù il liquido, qualche goccia corre sul mento ad impregnare la maglia già intrisa di sudore acqueo.

Il chiarore lunare dall’esterno fa apparire la notte meno tetra, meno inquietante. Una venatura di luce si insinua timidamente in quei cieli neri, aprendone un piccolo squarcio: l’alba è vicina.

L’immagine indistinta di quella persona in lotta tra la vita e la morte, intanto, mi ottenebra la mente e appena tento di identificarla questa svanisce, lasciando insoluti quesiti nella mia memoria.

Chi giaceva in quel letto d’ospedale? Per quale motivo il pensiero di avvicinarmi anche solo mentalmente alla verità mi turbava così tanto?

Sento che la testa sta per scoppiarmi e, se non apporto il giusto quantitativo di ossigeno ai polmoni, potrei rischiare un immediato collasso. Serro le palpebre e a piccoli passi percorro a ritroso la via che mi aveva guidata dritta in cucina. Di tanto in tanto è necessario che la mia mano cerchi un appiglio pronto a sorreggermi in caso di capo giro improvviso.

Una volta raggiunto il sofà, posso finalmente tirare un sospiro di sollievo sapendomi al sicuro su una superficie tanto morbida quanto ingannevole.

Le pupille dapprima dilatate per meglio muovermi al buio, iniziano a farsi piccole piccole dietro il peso di due occhi stanchi.

Non addormentarti, mi impongo perentoria.

Eppure anche il più percettibile degli oggetti a cui a stento riuscivo a dare una forma, evapora nell’inconsistente pulviscolo atmosferico, e la realtà torna a confondersi con il sogno.

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