Capitolo 5.

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Occorre giusto un passo, uno soltanto perché possa finalmente stringere tra le dita quell’infimo granello di libertà. E allora per quale motivo le scale sembrano centuplicarsi sotto i miei piedi? Quasi come per effetto ottico, ad ogni mio avanzare su per la scalinata, l’ultimo gradino pare spostarsi sempre più in alto.

Il tempo è una costante cui nessuno può sfuggire. Il tempo ci insegue, ci distrugge o ci fortifica, ma la verità è che viviamo tutti morbosamente ancorati ad un qualcosa che è di nostra creazione.

Insomma tre mesi spazzati via come nulla fossero ora che la maturità incombe minuto dopo minuto.

Con una calma apparente mi affretto a raggiungere i miei compagni. Nessuno di loro sembra notarmi, le teste chine sugli appunti tanto che i loro nasi diventano un tutt’uno con le pagine da ripassare.

Proseguo, dunque, il mio cammino finché i miei piedi non vanno ad incontrare la parete che delimita due aule. Qui lascio che la schiena si adagi lungo la superficie del muro senza mai aderire del tutto, costantemente percorsa da violenti e continui spasmi.

Non sono mai stata un tipo ansioso per natura, tanto è vero che ho affrontato i giorni antecedenti alle prove scritte con la massima serenità e senza dovermi sparare esercizi per arginare l’ansia. Ora però, a giudicare dalle mie reazioni, non ne sono più così sicura.

Non passano neanche dieci minuti che la mia compagna di banco, Sara, sgattaiola fuori dall’aula: occhi incavati, spenti, contornati da antiestetici aloni violacei contrastano con l’aria sollevata che gli stessi esprimono. Le corro in contro pronta a farle il terzo grado, quando una voce fuori campo fa il mio nome riecheggiando sulle pareti della stanza.

Il presidente di commissione si schiarisce la voce a colpi di tosse e al terzo tentativo riesce a pronunciare il mio cognome senza intoppi.

Faccio per muovermi ma l’ansia sta avendo il sopravvento sul mio corpo; i piedi incollati al pavimento di marmo che riveste la base del bianco e austero edificio. Per un attimo mi sento sola e piccola tra quelle quattro mura che si chiudono a cupola sulla mia testa.

La voce gracchiante del vecchio si ostina imperterrita a ripetere il mio nome. Questa volta per il troppo scatarrare, pare sia sul punto di strozzarsi e lasciarci le penne.

Basta temporeggiare, è ora che vada!

Inspiro profondamente fino a svuotare ogni traccia d’ossigeno nei polmoni, dunque espiro. Dentro e fuori, fuori e dentro finché un colpo secco alla spalla mi sbilancia in avanti e quasi non perdo l’equilibrio.

«Razza d’idiota, stavo per mandarti a quel paese. Che diavolo ti salta in testa?»

«Muoviti che ti faccio da testimone» sghignazza Sara trascinandomi di peso in aula.

L’aula è poco più grande della nostra. Un leggero profumo di legno di rovere si spande tutt’intorno presentandola alla mia vista, oltre che al mio olfatto, come la più accogliente delle aule di tutto l’istituto.

Entriamo insieme per poi separarci a metà strada: lei prende posto su di una sedia al lato della porta, a me spetta quella centrale dirimpetto alla schiera di docenti. Gli occhi di tutti piantati sulla mia esile figura ad eccezione del presidente che si vede costretto a calarsi le lenti sulla punta del naso per meglio osservare il contenuto della mia tesina.

Ditemi che è una tattica usata per intimidirmi, mi ritrovo a pregare con le dita aggrovigliate tra le pieghe dei miei shorts.

Per l’ennesima volta il fiato mi viene a mancare ma è una voce dal timbro vellutato e rassicurante a ricordarmi di respirare. Sollevo il capo quanto basta per incontrare due ridenti occhi castani lievemente circoscritti ai lati da piccole rughe. Il mio campo visivo si fissa per alcuni secondi sulla zona occhi, prima di estendere la visuale e quindi tornare a disegnare gli elementi restanti del viso: naso pronunciato, labbra sottili che si incurvano ad accogliere un sorriso incoraggiante e capelli rossi, fluenti che completano il quadro ottico che ho davanti.

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