Capitolo 8.

120 9 6
                                    

Da qualche parte, molto lontano, qualcuno sta sussurrando il mio nome.

Una quanto mai palpabile apprensione giunge ad incrinare la sua voce che sale di tono man mano che l’ansia si ripercuote in lui.

E’ dunque un lui il mio cacciatore ed io la sua vulnerabile preda.

Si avvicina.

Il suono della sua voce ronza nelle mie orecchie provocandomi uno, due brividi al secondo.

Mi ha raggiunta, non sono più sola.

Un alito caldo va ad imporporare il mio viso solleticandomi il collo.

Mi ha trovata.

Rinvenisco spalancando gli occhi per lo stupore. Ad accogliermi un fastidioso ciarlare, passi strascinati e rumori metallici di cucchiaini da tè di chi, probabilmente, sta consumando caffè al chiosco accanto alla zona in cui è stato allestito il palco.

Tutto regolare, salvo per quel volto che avrei giurato trattarsi di un sogno.

«Bentornata tra i comuni mortali!» esclama il ragazzo facendo il gesto di chi si asciuga il sudore dalla fronte.

Socchiudo le palpebre e mi ritrovo a serrare parossisticamente le labbra per impedirmi di urlare tutta la vergogna che ho dentro. «Mi devi scusare», biascico mortificata, «non ti biasimo se in questo momento mi stai odiando.»

«Odiarti? E perché mai dovrei farlo?» Sembra che le mie parole lo abbiano lasciato interdetto. «Inutile a dirsi: sei un pericolo ambulante, ma non vedo perché dovrei odiare qualcuno che conosco a malapena.»

Reclino il capo, pudica, interrogandomi su quale sarebbe stato il mio prossimo sbaglio. Dice di me che sono un pericolo ambulante – come dargli torto – ma chissà cos’altro pensa davvero di me.

Poco alla volta riacquisto la totale lucidità ed ora, oltre a quel paio di tizzoni neri che ha per occhi, riesco a distinguere gli elementi del luogo in cui mi sono risvegliata: due pareti color verde pallido aprono la via ad un corridoio non molto lungo delimitato dalla porta metallica di un ascensore; sulla destra spiccano due macchinette con gru per estrarre i peluche.

«Non sei una che parla molto, vero?» riprende nella speranza di cavarmi fuori almeno un sorriso.

Per sua fortuna riesce ad ottenere molto più di quello. «Si nota tanto, eh?» Annuisce. «Be’, allora prova a guardare con gli occhi di una fan che, al suo primissimo evento, finisce addosso al cantante che segue. Due volte. La prima gli dà dello stronzo, la seconda volta sviene tra le sue braccia. Bene ora a tutto questo, aggiungi un pizzico di timidezza e avrai la tua risposta.»

Un angolo della sua bocca si incurva verso l’alto come artigliato da un amo, mentre la graziosa mezza luna che avevo visto comparire in un momento di concentrazione, riappare incisa su una guancia. Con le mani bene in vista si dichiara vinto. «La mia vittoria, però, è che sono riuscito a strapparti non una parola, bensì un proclama. Alla faccia della timidezza!»

L’eco delle nostre risate risuona forte in quell’angusto posto nel quale mi sono ridestata e pensarci non fa che accrescere il mio imbarazzo reso manifesto da due chiazze cremisi sulle guance e sul collo.

Dopo quell’attimo di esuberante allegria, il silenzio torna ad impadronirsi di ogni traccia di positività nell’aria. La tensione in entrambi si percepisce attraverso i nostri gesti impacciati.

Ancora una volta è lui a rompere il ghiaccio. «Sei venuta qui da sola?»

Scuoto la testa miriadi di volte in cenno di diniego. «Sono con mia sorella, purtroppo.»

PulseDove le storie prendono vita. Scoprilo ora