Queste quattro mura

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"E, per sfinimento, per stoltaggine, per quell'inqualificabile sentimento che riesce a trascinarci a compiere le azioni più odiose, si lasciò condurre... [...]"

— Gustave Flaubert, "Madame Bovary", Parte Terza, Cap.6

Ho imparato a mie spese che basta poco per mandare in frantumi una vita apparentemente perfetta. Una sfida tra amici in piena estate, ad esempio.

Chiudi gli occhi e senti che tutto ti scivola via come se fossi diventata impassibile alle vicende della tua stessa vita.

Basta poco e inizi a vedere tutto in bianco e nero; oppressa dalle mura di casa, soffocata, fino a boccheggiare tra i mille pensieri che affollano la tua mente, desiderosa di cambiamento.
Volevo fuggire da quel vuoto che sentivo crescere, che si allargava voracemente, come una macchia d'inchiostro su una pagina bianca.
Bramavo di correre via dalla mia gabbia, sentire l'adrenalina salire fino a farmi scoppiare il cuore, poter ridere fino a pingere, e di sentirmi viva. Ma il mondo non era più un posto per me.

Chiusi gli occhi sotto al getto bollente della doccia, percependo ogni singola goccia che percorreva la mia nuda e pallida pelle. Il vapore annebbiava la mia vista e mi avvolgeva tra i ricordi, trascinandomi con se al sicuro da occhi malevoli.
Ancora una volta ripensai ai dettagli sbiaditi e confusi di quel famoso pomeriggio che, due anni prima, diede inizio alla mia "prigionia": quasi per volere del fato, però, sempre nella mia mente compariva l'immagine offuscata di Shawn, mio unico e fidato amico dallo spiccato senso dell'umorismo. Per quanto mi sforzassi non ricordavo più nulla di lui se non i suoi occhi. Quei suoi meravigliosi occhi curiosi da bambino, che guardavano il mondo come se fosse stata la cosa più bella. Non gliene feci mai una colpa di ciò che successe, a differenza dei miei genitori.
Fu la prematura morte di Josh, mio fratello, ad averli portati a sviluppare una vera e propria ossessione per la mia sicurezza, quasi volessero proteggermi per non percepire gravoso il senso di colpa che pesava sulle loro spalle. Mi crearono una gabbia intorno e, accecati dal dolore, neanche se ne accorsero.
Non li biasimai quando mi chiesero di non uscire, di seguire le lezioni da casa e di non vedere più Shawn. Era folle ma sembrava una richiesta semplice e quasi dovuta dopo quello che mi era accaduto, dopo la preoccupazione che avevo causato. I loro volti, i gesti impacciati, le lacrime di mamma ne erano la prova.
Ero stata così stupida da pensare che il loro spirito di protezione si sarebbe placato dopo aver curato ciò che aveva causato la dispnea. Mi ero convinta che il problema fosse solo quello, ma ero stata così ingenua da aver accettato le loro paranoiche condizioni, cadendo nella loro rete. Dentro di me speravo, anzi, sapevo che lui sarebbe venuto a trovarmi. Che sarebbe stato lui a cercarmi non vedendomi arrivare. Ma così non è stato.
Sentii bussare piano alla porta, riscuotendomi dal caldo torpore dei pensieri.
"Margot, sei ancora sotto la doccia?"
"Si mamma, ora esco"
Girai velocemente la manopola e mi apprestai ad uscire dalla doccia.
Misi l'accappatoio, legai i capelli in un asciugamano e nel tragitto per raggiungere la mia camera rimasi ferma davanti alla me riflessa nello specchio.
Non mi riconoscevo quasi più.
Ribelli ciocche di capelli, erano attaccate alla mia fronte, gocciolando ritmicamente lungo le guance che l'acqua bollente aveva segnato di rosso acceso, in contrasto con il bianco accecante della pelle.
Erano però le occhiaie scavate sotto gli occhi a catturare la mia attenzione. Sembravano più nere del solito: Era la mancanza di sonno a causarle o erano ormai parte del mio volto come a voler sottolineare l'oscurità delle mie giornate?
Avvicinai piano una mano alla superficie, quasi desiderosa di poter oltrepassare il mio riflesso, raggiungendo così un mondo parallelo, magari migliore. La ritrassi però velocemente, massaggiandomi le tempie con una smorfia.

Voci, urla, risate.
Tutto giungeva alle mie orecchie come un'inconsapevole tortura.
Quel giorno, quel vociare per la strada, era molto più forte del solito.
Mossa dalla curiosità, poggiai le mie ginocchia contro il morbido cuscino del divanetto sotto la finestra, mi sporsi e spiai innocente la strada sottostante.
Tra la schiera di case simili spiccava quella che tanto mi ricorda l'infanzia, in cui io e Shawn giocavamo a palle di neve o a nascondino. Cercai di non soffermarmici troppo ma le voci venivano proprio da lì: nel vialetto d'ingresso era parcheggiata una jeep nera, pareva nuova, e Shawn, diverso da come lo ricordavo, ne provava i comandi entusiasta. Manuel , suo padre, era al suo fianco e rideva all'euforia del figlio.
"Shawn metti la cintura!" Urlò ad un tratto manny bacchettando il figlio. Lo vidi sollevare gli occhi al cielo e sbuffando mettersi la cintura. 
Shawn accese la macchina e, con estrema naturalezza, portò in retromarcia il veicolo dal vialetto fino alla strada asfaltata.
Prima che sfrecciasse via con quell'enorme strumento di libertà personale, mi parve di aver incrociato il suo sguardo.
Lui mi aveva visto, ma era come se il suo sguardo mi avesse oltrepassato, come se di me fosse rimasto solo un alone sbiadito.
Il suo sguardo mi ferì più di quanto lo facesse quella casa.

Spazio autrice: Salve! si, non ho fatto morire nessuno, è già qualcosa 😂
Scusate eventuali errori. Spero vi sia un minimo piaciuto :c

When the night comes|| Shawn Mendes Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora