La leggenda del ragazzo corvo

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Attenzione: contenuti forti, se siete deboli di cuore non leggete.

Si narra che fin dall'inizio dei tempi vivesse un ragazzo corvo.
Un ragazzo simile in tutto e per tutto agli umani che popolavano la terra.
Ma questo ragazzo corvo era speciale.
Aveva due enormi e bellissime ali nere, grandi abbastanza da permettergli di volare. E i suoi occhi. Quando spiccava il volo, i suoi occhi diventavano rossi.
Si narra che ad ogni generazione lui morisse, per poi rinascere come bambino e morire come adulto. Tuttavia era vulnerabile. Se fosse morto ammazzato da un umano, la sua morte sarebbe stata definitiva.
All'inizio viveva in pace con gli umani, anzi spesso aiutava loro nelle mansioni che più avevano bisogno di un paio di ali: i trasporti, le comunicazioni, raggiungere i posti alti...
Ma poi gli umani divennero troppi e troppo insistenti. Il ragazzo corvo non riusciva più a riposare, e per poco non impazzì. Quando si reincarnò, lo fece in una grotta lontana, isolata dal resto dell'umanità, così da poter vivere in pace.
L'umanità crebbe, crebbe e crebbe, si formarono degli imperi e poi caddero. I secoli passavano, e il ragazzo corvo continuava la sua vita, da solo.
Stanco della solitudine, decise di andare in un villaggio vicino, per stare un po' in compagnia.
Ma gli umani avevano perso memoria di lui, e vedendo le sue enormi ali, pensarono ad una stregoneria. Lo catturarono e quasi gli tagliarono le sue ali, ma riuscì a scappare, aiutato da una giovane strega.
La strega però, vedendo il ragazzo corvo gravemente ferito, gli propose un incantesimo per guarire: celare le sue ali, nasconderle alla vista, così che potesse vivere tra gli umani senza pericolo alcuno. Ma il prezzo da pagare era alto. Per fare questo, il ragazzo corvo non avrebbe più dovuto usare le sue ali. Il ragazzo corvo, disperato e in fin di vita, accettò.
Passarono i secoli, e il ragazzo corvo si abituò a non usare le sue ali. Dimenticò persino di averle. Infatti, credette di aver vissuto un sogno. Ad ogni reincarnazione, dimenticava la sua vita precedente e rinasceva come neonato. Era parte dell'incantesimo della strega.
Tuttavia, ad ogni generazione cercava sempre un modo per volare di nuovo.

Al suo primo incontro con Kageyama, Hinata pianse. Tanto. E promise che avrebbe vinto.
Ma non piangeva per il dolore della sconfitta, non solo. Piangeva per il dolore fisico. Dentro di sé, infatti, mentre giocava aveva sentito qualcosa. Una presenza graffiante che lo aveva riempito di energia, aggiungendo alla sua forza esuberante altra. Si era sentito sopraffare da quella forza, fin quando non era arrivata la sconfitta. E ora, quella presenza chiedeva indietro ciò che aveva donato, con tutti gli interessi. Ha fallito, ha perso, e merita di soffrire. Sentiva gli occhi bruciare, le lacrime erano una conseguenza del dolore all'iride, che lentamente sfumava da quel dolce marrone a un rosso rapace. Mesi dopo, quando iniziò il liceo, Hinata riusciva più o meno a controllare quel istinto che albergava in lui, quella forza sovraumana che aveva all'incirca imparato a imbrigliare e sfruttare con i suoi salti.
Lui e quella presenza erano d'accordo su una sola cosa: vincere, vincere ad ogni costo.
Durante il giorno, quella presenza dormiva, quieta, risvegliandosi ogni qualvolta percepisse il profumo di una sfida. Ogni volta che Shoyo varcava la soglia della palestra, lo spirito di corvo del ragazzo si risvegliava e gracchiava per farsi sentire.
Non gli era mai capitato che si risvegliasse prima. Per questo quando, rivedendo Kageyama, aveva sentito quel familiare bruciore agli occhi e nelle sue orecchie era risuonato, persistente, il richiamo di centinaia di corvi alla ricerca del loro sovrano, Shoyo andò nel panico.
Con il tempo imparo ad accettarlo e riuscì a gestirlo meglio. Lo spirito gli dava la forza necessaria a vincere, e in cambio Shoyo gli dava un corpo dove albergare. Aveva imparato a conoscere meglio lo spirito e a comprenderlo meglio. A lui interessava solo di vincere. Era, più che una presenza, era un istinto primario, animale, che lo istigava a vincere, che vedeva la vittoria come sopravvivenza e la sconfitta come morte. Era irruento, prendeva il sopravvento quando tutto si annullava e rimanevano sole due opzioni: vincere o morire. C'era una cosa che Hinata non capiva. Quando era con Tobio, sentiva qualcosa. L'Istinto prendeva il sopravvento, sebbene in maniera leggermente diversa. La mente innocente di Shoyo veniva invasa da immagini al limite del porno, sentiva il cuore ruggirgli nelle orecchie e riusciva a mantere il minimo di controllo necessario a non saltargli addosso. E al tempo stesso lo vedeva come una sfida, voleva batterlo. Il suo orgoglio ancora bruciava per la sconfitta subìta.

Sono passati diversi anni.
Hinata è felice.
Gioca nella nazionale con suo marito, che ama alla follia. Ed è felice. Di una felicità quasi irreale, folle, esagerata, ma non si è mai troppo felici, giusto?
Giusto. Peccato che nel momento in cui la tua felicità la perdi, il mondo intero ti cade sulle spalle in un colpo fatale.
Erano arrivati in finale, contro l'Italia. E avevano perso. Aveva perso. Lui, Hinata Shoyo, aveva perso.
E il corvo, suo alleato fino a quel momento, gli aveva voltato le spalle e aveva ripreso a torturarlo dall'interno, a punirlo per la sua totale incompetenza.
Per mesi rimase fermo a letto, non riusciva quasi a muoversi.
-amore, che hai?- Shoyo non aveva mai visto gli occhi blu di Tobio così pieni. Pieni di ansie, tristezze, preoccupazioni, paure.
-u... ucc... uccidimi- gracchiò, per poi venire colto da un attacco di tosse che gli sporcò la bocca di sangue. I medici non si sapevano spiegare cosa avesse, ma lui lo sapeva bene. L'istinto da corvo, perché questo era rimasto del ragazzo corvo nei secoli a venire, lo tormentava da tutta la vita. Gli donava forza, ma era un'arma a doppio taglio.
-cosa?! No!- urlò Kageyama mentre una lacrima scivolava giù lungo la sua guancia pallida.
-ti prego... non ce la faccio più- anche Hinata piangeva, lacrime copiose che bagnavano il cuscino -ho perso... ho perso e ora mi sta punendo.
-chi?! Chi ti sta punendo?! Shoyo, ti prego, mi stai facendo male- non l'aveva mai visto piangere, Shoyo, e si stupì di come il pianto stonasse contro il viso serio e spesso privo di emozioni dell'amore della sua vita. Non l'aveva mai visto piangere, Shoyo, perché appena i due si incontravano tutta la tristezza svaniva dal cuore di Tobio, che perdeva ogni motivo di piangere.
Ma ora no. Ora il suo sole, il suo asso, il suo centrale nano, la sua esca preferita stava morendo davanti ai suoi occhi, e non sapeva come aiutarlo.
-i-io... non lo so. Lo sento da sempre, vive dentro di me. Mi dona forza. È come un... istinto primordiale. Vuole che io vinca. Come le bestie, rispetta il più forte e punisce i perdenti- la sua voce tremò -e io ho perso.
-ma di che stai...
-è una specie di... istinto da corvo- a quelle parole Kageyama rabbrividì. E capì. Gli ritornò in mente sua nonna, che aveva gli occhi identici ai suoi, che gli raccontava sempre la storia di un ragazzo corvo che una loro antenata aveva salvato, ma a caro prezzo. Gli aveva raccontato che il destino della loro famiglia era strettamente intrecciato a quello del ragazzo corvo, che generazione dopo generazione si indeboliva, perdendo ricordo del suo antico essere e preservando solamente un istinto recondito nella sua anima.
"Se mai lo incontrassi, mio piccolo Tobio" aveva detto la vecchina cullandolo "uccidilo. È l'atto più caritatevole che tu possa fare"
Al tempo non aveva capito. Perché la morte avrebbe dovuto essere un atto di carità? Ma ora capiva. Da quando era stato ferito, il destino di quel ragazzo corvo era quello di morire. La sua antenata aveva solamente allungato l'agonia, donandogli qualche secolo in più, ma questo gli aveva solo procurato più dolore. Non poteva più volare, non poteva più ritornare al suo antico splendore. Se non con la morte. La morte definitiva, con cui avrebbe, finalmente, trovato la pace, volando via con lo spirito, finalmente libero.
Ma questa consapevolezza non rendeva di certo le cose più facili.
Kageyama non riusciva a distogliere lo sguardo dagli occhi di suo marito, che lo fissava implorante. Non riconobbe i suoi occhi, ma al tempo stesso gli sembrarono incredibilmente familiari. Erano rossi, lucidi, e imploravano pietà.
-ti prego- gracchiò Shoyo -se mi ami come ti amo io... uccidimi.
Le lacrime smisero di scendere dagli occhi di entrambi. Quelli di Shoyo accesi dell'ultimo brandello dell'antica gloria, quelli di Tobio freddi davanti alla sua missione, missione tramandata di generazione in generazione nella sua famiglia. Aiutare il ragazzo corvo.
E se l'unico modo di adempiere al suo compito era quello di ucciderlo, be', l'avrebbe fatto. Era nato per questo.
E così di alzò dalla sedia vicino al letto dove giaceva il corvo ferito, e andò in cucina. Preparò una miscela di medicine, che avrebbero donato a Shoyo l'eterno riposo senza farlo soffrire. Infine inserì la miscela in una borraccia d'acqua, che diede da bere a Hinata. Allora si stese sul letto affianco a lui, stringendolo forte tra le braccia mentre la vita lentamente scivolava via da quel ragazzo corvo tremendamente solare e vivace.

Sentì i corvi gracchiare in lontananza, poco tempo dopo, mentre si impiccava in quella stessa camera da letto.

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