Boshin Sensō

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La luce si rifletteva sulla lama affilata della spada fino a sembrare essa stessa un raggio di sole. Era una bella giornata di sole infatti, com il cielo terso, i ciliegi coperti di neve candida e i tetti delle case foderati da una brillante coltre di brina bianca.
Ma la luce riflessa dalla lama non era bianca e accecante come un raggio di sole, era di un rosso scarlatto, lucente, del colore del sangue.
Il sangue colava dalla lama in grosse gocce dense e quando veniva a contatto con il terreno freddo e fangoso si espandeva come olio sull'acqua lacustre.
La spada, una okatana, era piantata a terra davanti alle radici del pino che ormai aveva perso tutti i suoi aghi. Rifletteva alla perfezione il sole di mezzogiorno senza perderne nemmeno un raggio.
La donna con i capelli neri camminava silenziosamente verso l'albero con un foglio candido stretto tra le dita sottili ma coperte da calli che non facevano altro che rivelare il passato della giovane. I pochi simboli scritti leggeri come uno svolazzo erano neri come la china. Erano una preghiera, un messaggio, parole non dette, parole di amore fraterno che non aveva fatto in tempo a pronunciare prima della fine.
Nakano Yuko aveva il viso coperto di trucco bianco, con le labbra tinte di rosso e le gote spolverate di rosa.
Quando giunse davanti alla spada si inginocchiò bene attenta a non sgualcire il kimono blu all'altezza delle ginocchia e con un sussurro di addio legò la preghiera all'impugnatura della spada.
I suoi occhi rividero tutto, dall'inizio.
Takeko era poco più grande di lei e insieme studiavano gli antichi testi confuciani, giocavano insieme a Toyoki, loro fratello. Erano nati tutti a tre anni di distanza l'uno dall'altro, così precisi che il materno Oinuma Kinai pensava che la figlia Koko fosse rimasta incinta apposta ogni tre anni. Forse era così o era una semplice coincidenza, non avrebbe potuto dirlo.
Takeko era sempre seria, composta, pronta a compiere i suoi doveri con onore, era la sua migliore amica e il suo generale. La sua più grande confidente.
Tanti anni prima, quando correva il 1857, era una sera afosa d'estate, le stelle iniziavano a brillare nel cielo della sera e le torce illuminavano già il portico della casa. Yuko era alla ricerca di ranocchie da portare al loro cane, Chihiro, così avrebbe finalmente trovato un nuovo amico con cui giocare e non sarebbe più rimasto davanti all'uscio di casa ad aspettare loro padre.
Era appena riuscita a prendere una ranocchietta quando attraverso la stoffa che componeva le tende vide delle ombre che danzavano leggere come i petali dei ciliegi nel vento primaverile. Quelle ombre erano bellissime: volavano reggendosi a lunghe aste sottili che terminavano con delle mezzelune affusolate che sembravano fendere l'aria come delle spade. Una delle due ombre cadde rovinosamente a terra producendo un tonfo sordo quando colpì le assi del pavimento. Si avvicinò con la ranocchietta tra le mani e sbirciò sotto alla tenda per vedere come stava l'ombra caduta a terra.
Ma non c'era nessuna ombra a terra.
Sua sorella maggiore, Nakano Takeko, era seduta a terra davanti al suo maestro, Akaoka Daisuke. Lui le tendeva la mano mentre lei si massaggiava un fianco con una mano.
-Fa male.- diceva con un tono serio. Aveva dieci anni eppure aveva già una soglia del dolore impressionante.
La ranocchietta tra le sue mani gracidò e sgusciò via dalla sua presa, saltando verso il maestro Akaoka. La bambina superò il gradino e le tende che la separavano dalla sorella e corse verso di lei cercando si riprendere la ranocchietta. Venne fermata prima che riuscisse a prenderla da una mano ferma e larga.
-Sei una bambina davvero molto curiosa. Non vuoi sapere cosa sta facendo la tua sorellona?- il maestro le sorrise e le porse un lungo bastone molto simile a una lancia e si abbassò alla sua altezza. Nel frattempo Takeko era riuscita a prendere il piccolo anfibio e lo aveva tenuto tra le braccia.
Era iniziato tutto così, con un sorriso.
I ricordi mutarono.
L'estate era già arrivata da un mese e non faceva altro che rendere più faticose le lezioni con il naginata, naginatajutsu, una delle armi più importanti per la difesa della famiglia, della casa e della propria terra. Era un'arma composta da una lama ricurva fissata su un lungo bastone di legno. Le origini del naginata erano vaghe ma il suo utilizzo era molto più che chiaro. Era quanto di più certo in quel momento.
Yuko passava le ore a studiare, allenarsi e scrivere, senza curarsi troppo del passare del tempo, ben conscia che ci sarebbe stata sua sorella a ricordarle di quanto im fretta passavano le giornate. Ascoltava le storie di Tomoe Gozen uscire dalle labbra di Takeko cone acqua fresca, risvegliando in lei la meraviglia e l'ammirazione verso le ikprese di quella donna, una semplice concubina, che era passata alla storia grazie al naginatajutsu, la stessa arte che loro studiavano ogni giorno.
Le lame si scontravano l'una sull'altra, producevano sibili e scintille d'oro. Il sudore colava dalla fronte e imbrattava gli abiti senza ritegno. Il cielo era coperto da una colte grigia di nuvole che non lasciavano passare tutta la luce del sole, come se si trovassero sotto a un enorme baldacchino grigio: la luce c'era ma era soltanto una minima parte di quanto il sole cercava di mandare sulla terra.
La ragazza, con l'arma stretta tra le mani bianche, avanzava lentamente verso la sorella, con passi quasi strascicati. Prese fiato e con un grido attaccò con una furia che poco si addiceva a una ragazza in età da marito. Le aste so incrociarono e batterono l'una contro l'altra, sfregarono mentre le ragazze ritreavano e facevano sibilare le lame come dei serpenti metallici. Le armi danzavano aggraziate insieme a loro, come delle danzatrici celestiali. I loro passi si confondevano, si sollevavano da terra e si scambiavano come due turbini di sabbia sollevata dal vento.
Era arte, bellezza e rapidità, una splendida mescolanza di grazia e forza unite in uno scontro spettacolare come l'alba dopo una tempesta.
Yuko cadde a terra, colpita al fianco dall'asta del naginata. Battè le mani a terra e emise un gridolino di sorpresa. Sorrise. Era morta nell'allenamento, ma poteva ancora rimediare.
Si alzò e riprese la sua arma a fatica, fece un inchino senza guardare la sorella maggiore negli occhi e si allontanò mantenendo il sorriso premuto sul volto.
La sua maestra le stava insegnando bene.
Dopo quell'incontro, il suo primo incontro, ne erano arrivati molti altri, sempre più complicati.
Era passato qualche anno, non ricordava esattamente quanti, e un giorno in cui si trovavano al mercato a cercare alcune delle nuove mercanzie arrivate dagli Stati Uniti, videro che gli angoli delle strade erano popolate non dallo stesso numero di mercanti, ma erano piene di mendicanti, contadini coperti di fango e che tenevano un coltello in mano come loro ultima salvezza. Erano fuggiti dalle loro terre per scampare alla guerra.
Quella sera stessa Nakano Koko, la loro madre, le aveva chiamate nella zona della casa riservata alle camere delle donne. Le aveva fatte inginocchiare davanti a lei e aveva porso loro due fasce di stoffa e due tantō, dei coltelli dalla lama corta e dritta ma affilata.
Le due sorelle sapevano cosa fare, quindi presero una fascia a testa e la legarono attorno alle ginocchia, poi sollevarono a braccio teso i tantō e li sfilarono dal fodero di legno con attenzione, socchiudendo gli occhi al riflesso del tramonto sul metallo temprato. Eseguirono gli stessi gesti della madre: avvicinarono il coltello alla gola e vi appoggiarono sopra la parte non affilata della lama. Con un respiro movimento del braccio il jigai, il rituale per non perdere l'onore, ebbe fine, o perlomeno la prova.
Sapevano già cosa fare.
Quando arrivò qualche mese dopo, la richiesta di uomini per un esercito da parte dello shogun, il padre sveva già provveduto a cercare un marito a Takeko, ma lei aveva rifiutato sotto ogni punto di vista. Non era pronta a diventare una moglie oggetto pronta ad accogliere il marito a casa dopo una battaglia, era lei ad andare in battaglia e tornarne vittoriosa.
Quando la notizia della guerra giunse fino ad Aizu, Takeko aveva affidato la casa alle cure del suo maestro Akaoka Daisuke.
Non era una sicurezza vera e propria la sua, ma non poteva fare nient'altro. Doveva partire, non sapeva quando sarebbe tornata ma doveva almeno tentare. La guerra non aveva pietà per nessuno, nemmeno per le donne.
Yuko ricordava bene quando l'esercito dell'Arma Bianca, formato solo da giovani donne, aveva scelto e giurato fedeltà alla primogenita dei Nakano. Ricordava bene del momento in cui avevano tagliato i loro lunghi capelli neri e indossato l'armatura. Ricordava il momento in cui avevano scritto le loro preghiere di addio e lasciate sull'altare domestico davanti agli occhi spenti della madre. Ricordava tutto.
L'armatura era composta da una dō composta da lamelle, hon-kozane, o lamine, hon-iyozane, in metallo e cuoio, interconnesse tra loro da rivetti, lacci o cotta di maglia, ricoperte di lacca per garantire una maggiore resistenza alle intemperie. La corazza era leggera, adatta a una donna minuta come Takeko. La onna-bugeisha non portava un elmo, anche perché contro i fucili occidentali avrebbe fatto ben poco. Avvolgeva semplicemente una fascia di lino per assorbire il sudore. Le armi erano tutta un'altra storia: la sua okatana era legata proprio accanto alla wakizashi, sullo stesso fianco, per poter utilizzare l'una o l'altra a seconda delle esigenze. Sul fianco opposto c'era legato un tantō. Il naginata sarebbe rimasto tra le sue mani, pronta a essere usata.
Era il momento di partire o non avrebbero fatto in tempo a raggiungere il campo di battaglia per fermare l'avanzata imperiale.
Era l'autunno del 1884, un autunno freddo e umido, cosa che si vedeva perfettamente da come le ragazze si stringevano nella sottoveste di lana già umida per il nevischio che si infiltrava sotto le lamelle di metallo.
Le due sorelle erano in piedi davanti al corpo dell'Arma Bianca con le armi in pugno, il cuore che batteva a mille e i capelli legati in una semplice coda, diversamente dalle normali giornate nelle quali dovevano portare acconciature strettissime e pesanti.
Era il momento di andare.
Per prima cosa si diressero verso una piccola foresta che le avrebbe nascoste abbastanza da raggiungere senza problemi l'accampamento dell'esercito dello Shogun.
La foresta era una umida distesa di fango, foglie marcie e nebbia densa. Le pozzanghere sul sentiero erano popolate da migliaia di zanzare che ronzavano fastidiosamente attorno alle donne che arrancavano faticosamente per raggiungere l'accampamento. I pochi spiragli di luce che oltrepassavano le chiome degli alberi non facevano altro che accecarle visto che ormai i loro occhi erano abituati al buio.
Quando ore dopo giunsero in prossimità dell'accampamento dei soldati si avvicinarono a loro con l'espressione di chi ha visto un fantasma. Borbottavano sotto voce e gesticolavano freneticamente con le mani.
Qualche minuto dopo un generale si avvicinò a loro mantenendo un'espressione stupita.
Strabuzzò gli occhi incredulo e si tolse l'elmo di ferro.
-Non eravate voi che stavamo aspettando. Come possiamo affidarci a delle donne in guerra?-
Alcuni soldati alle sue spalle ridacchiarono e gridarono battute di dubbio buon gusto sui loro compiti da donne.
Takeko si inginocchiò e impugnò il coltello con forza, se lo avvicinò alla gola con un gesto secco, rivolgendo la lama verso la pelle candida. Nei suoi occhi si rifletteva perfettamente la sua indignazione per il loro comportamento.
Il generale era impegnato a ridere con i suoi soldati quando anche Yuko e molte delle sue sottoposte ripeterono lo stesso gesto. A quel punto la donna samurai iniziò a parlare:
-Se voi non vi affiderete a noi, allora non avrete la possibilità di pentirvene. Siamo pronte a morire, perché sprecare questa vostra occasione?-
Guardava i soldati con aria di sfida, proprio mentre iniziava a premere il tantō sulla pelle fino a farne uscire una goccia di sangue.
I samurai allora smisero di ridere e tacquero, buttando l'accampamento in un silenzio assordante. L'unico suono che si sentiva era lo scoppiettio dei fuochi di bivacco e delle torce.
Takeko fece un sorriso freddo e abbassò il coltello, ritornando in piedi. Le onna-bugeisha ripeterono i suoi movimenti, silenziose quanto lei.
-I cavalli dove si trovano?- chiese secca. Le indicarono un recinto di fortuna creato con rami marci e pezzi di stoffa lacerata.
Passarono delle ore e arrivò il momento di scendere in battaglia.
I soldati del mikado erano vicini e continuavano ad avanzare senza quasi trovare ostacoli e resistenze, nemmeno nei villaggi più popolati.
Gli esploratori avevano riferito di un esercito di migliaia di soldati, cosa non confermata dalle spie che erano riuscite a portare dei messaggi ai generali, dove dicevano che in realtà i soldati erano poche centinaia, il tanto che bastava per essere contrastato dall'esiguo esercito dello shogunato.
Le donne erano divise assieme agli uomini tra fanteria e cavalleria, ognuna con le proprie armi e la consapevolezza che in un modo o nell'altro la loro morte avrebbe rallentato l'avanzata imperiale sulla terra di Aizu.
Loro aspettavano in formazione sulla cima di una collina coperta di cespugli spinosi.
Iniziò a scendere un leggero nevischio raffreddando ulteriormente l'aria già umida.
Quando l'esercito dell'imperatore divenne visibile impugnarono le armi e la fanteria dell'Arma Bianca iniziò ad avanzare, seguita subito dopo dalla cavalleria.
Qualcuno sparò il primo colpo e una fante cadde a terra. A quel punto iniziarono a correre verso i ranghi dell'esercito di Edo con le armi alzate e terribili grida di battaglia.
Quando si scontrarono fu come infrangere due lastre di vetro l'una sull'altra.
Qualcosa si ruppe.
Gli imperiali che fino a quel momento avevano sparato qualche colpo di avvertimento, senza neanche sapere con chi avessero a che fare.
Fermarono tutto quando l'esercito era ormai vicino e i volti dei combattenti ben visibili.
Non vedevano i volti dei soldati, nascosti dagli elmi laccati.
Cessarono immediatamente il fuoco.
Le donne roteavano i naginata come dei demoni, falciavano vite e portavano morte con una furia mai vista prima.
I samurai del mikado riaprirono il fuoco, non curandosi più del fatto di combattere con le donne.
Le spade cozzavano sulle armature, scintille volavano sopra le teste dei combattenti.
Takeko e Yuko combattevano l'una accanto all'altra, si allontanavano e si avvicinavano ancora. Due danzatrici furiose e perfette, che ballavano un terribile valzer sul campo di battaglia.
Il terreno divenne rosso dal sangue. I loro passi si incrociavano con le braccia dei caduti, calpestavano i corpi senza vita.
La guerra era quasi giunta al termine.
Fu in quel momento che accadde.
Takeko combatteva in prima fila, da sola, infatti Yuko era andata ad aiutare nelle retrovie.
Era una mescolanza di fuoco, sangue, polvere da sparo. Le grida in quel momento erano un'armonia di morte e paura, dove l'odore di fango e di marcio rischiavano di soffocare entrambi gli eserciti.
Lei si distrasse solo un momento, giusto per riprendere fiato un momento solo.
Un proiettile vagante trovò un muro dove fermarsi.
Lei cadde a terra dopo altre sei anime catturate dal suo naginata.
Il suo sangue si rimescolò con il sangue di tanti altri.
La sua arma non rotolò via, rimase nela sua mano sempre più fredda.
Il cielo era sempre più vicino.
Era tutto silenzioso, leggero, ovattato come non mai.
Sorrise silenziosa.
Quando la battaglia finì, Yuko andò in cerca della sorella maggiore, vagando sopra ai cadaveri dei soldati e dei cavalli, il cibo degli uccelli saprofagi.
La vide sdraiata su uno dei pochi pezzi di terra ancora coperti da una soffice coperta di prato verde screziata di rosso.
Si avvicinò e ascoltò ciò che le chiedeva con un sussurro.
La spada di Yuko si macchiò di sangue un ultima volta.
La testa della sorella venne portata al vicino tempio Hōkai.
I ricordi terminarono e lei, onna-bugeisha, Nakano Yuko, si alzò ripulendosi le ginocchia dal fango ghiacciato e dalla neve.
Il ricordo dell'ultima onna-bugeisha, la più importante di tutte, non sarebbe morto per molto altro tempo.
Lanciò un ultimo sguardo alla okatana e si allontanò dopo aver fatto un ultimo inchino di addio.
La sorella sarebbe stata felice per lei.

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