Si era svegliato da poco, ancora con gli stivali dalla sera prima, coperto da un ferraiuolo logoro e un cappuccio di lana sgualcito.
Intorpidito dal freddo, si mise a sedere sfregando le mani tra loro per tentare di scaldarle in un modo o nell'altro.
Guardò la candela spenta accanto al letto, poi fece un respiro profondo e si tirò su dal lenzuolo bianco.
Si portò una mano tra i capelli neri, camminò fino alle imposte di legno a tentoni e sollevò il chiavistello dal piccolo gancio che lo teneva chiuso, facendo entrare i primi raggi del sole che colpivano la città di Firenze.
Senza dire nemmeno una parola, poi, si diresse verso la piccola cassa dove teneva i vestiti più pesanti, pronto a gettaserli addosso alla rinfusa.
Le sue dita sporche di pittura avvolsero la stoffa.
Dinoccolate, magre, pallide e attraversate da vene di poco visibili sotto alla pelle.
Lo scalpello, la polvere di marmo, il martello. Colpi precisi, muscoli tesi.
Dinamismo e stasi concentrati in un unico soggetto.
Indossò un cappello morbido, un altro mantello e si versò un bicchiere di vino scadente per accompagnare il pane del giorno prima.
Sentì la crosta scricchiolare tra i denti, il vino bruciare in gola e scaldarlo. Le labbra contratte per impedire che le briciole cadessero nel piatto o nella coppa di legno.
Un suono sgradevole alle sue orecchie assonnate, un sapore dolce e forte per la sua gola arsa dalla notte.
Appoggiò i pugni sul tavolo e si lasciò andare a un rantolio basso e rauco.
Intorpidito, con un nodo dovuto al digiuno alla pancia e la bocca impastata dal sonno, tentò di mangiare il più lentamente possibile così da non doversi confrontare con i morsi della fame troppo presto, magari per resistere fino a cena.
Avrebbe potuto risparmiare abbastanza denaro, così da conservarlo.
Ma no, lui, Michelangelo di Lodovico Buonarroti, non avrebbe potuto.
Il denaro conservato non era abbastanza.
Il denaro era come il movimento degli affreschi, la perfezione dei muscoli dei suoi soggetti. Qualcosa di anatomico, perfetto, ma quasi irraggiungibile, una macchina divina. Una figura efebica ed eterea.
E il denaro, lo era una macchina divina.
Piccolo, brillante solo se appena uscito dalla zecca del fabbro e dal valore instabile, riusciva a smuovere mari e monti e dare, con il suo luccichio malevolo, valore anche al più piccolo e insignificante granello di polvere.
L'uomo annaspava per inseguire qualcosa che rasentava la divinità, ma come dargli torto?
Lui stesso cosa faceva?
Quando terminò di mangiare si alzò a fatica e versò dell'acqua fredda in un catino. Se la gettò sul volto, per poi uscire dalla stanza e incontrare dell'aria gelida proveniente da sotto alla porta dell'ambiente principale della casa.
A dispetto della stanza dove dormiva, l'ambiente dove ospitava i pochi visitatori era abbastanza ampio, non uno stretto cubicolo spartano, con un camino, due finestre e un tavolo.
Da quando a Firenze era arrivato Savonarola, però, nessuno era più entrato nella casa.
Nemmeno il suo caro amico Piero.
Peggio per lui, si diceva, che non lo aveva appoggiato nella sua ascesa.
Troppo coerente a sè stesso, come tutti i membri della famiglia dei Medici.
Ogni volta che sentiva quel nome sbuffava e cercava di liquidare quell'argomento come se si trattasse di pura spazzatura.
Michelangelo gonfiò le guance e dal tavolo prese due rotoli di carta legati da un laccio in cuoio, così, avvolgendosi attorno lo stesso ferraiuolo con cui si era svegliato, andò verso la porta e la aprì, ritrovandosi travolto nella frizzante strada che costeggiava l'Arno.
Stoffe, spezie, merci pesanti e leggere.
Quello che circolava per le strade di Firenze proveniva da tutta Europa.
In quei giorni di freddo pungente, però, la folla era diminuita, passando da una terribile fiumara di persone di ogni condizione sociale a pochi garzoni e donne in cerca di provviste a buon mercato.
Camminando rasente al muro per evitare il fango in mezzo alla strada, osservava le facciate dei palazzi che costeggiavano il suo percorso.
Quando superò Ponte Vecchio, affrettò il passo per raggiungere il suo studio a Santa Maria del Fiore, così da riprendere il prima possibile il suo lavoro.
Era dura, ma quella statua, quel friabile e cotto pezzo di marmo di Carrara, sarebbe diventata un'opera immortale.
Da Vinci, Botticelli, Lippi, Sansovino e anche il Ghirlandaio, avevano discusso dove potevano mettere la statua, il "Gigante" ormai in termine d'opera.
Aveva dovuto far costruire dei pannelli di legno attorno alla statua per evitare che i curiosi, ormai divenuti soffocanti, potessero disturbare il suo lavoro o rovinare il frutto di tre anni di lavoro.
Appena arrivò, spinse la piccola porta a mezzi perni e la oltrepassò, chiudendola dietro di sè.
Sollevò lo sguardo e, come ogni mattina degli ultimi tre anni, rimase in silenzio a osservare la statua, meravigliosa sul suo piedistallo.
Malta di calce per levigare, annullare le venature e taroli, renderla lucente e perfettamente liscia.
Era fiero di come aveva manipolato quel freddo blocco di pietra, come ne aveva alzato la qualità.
Non c'erano speranze che il braccio sinistro restasse attaccato al tronco, o che le gambe reggessero tutta la struttura, ma dopo tre anni era lì, in piedi.
Quello che simboleggiava, quello che era, rappresentava la perfezione.
Tutto.
La distinzione tra un pugno di creta e una persona era contenuta in una sola parola.
Il primo respiro di un bambino, il guizzare dei muscoli di un cavallo in corsa, il brillare della candida pelle di una fanciulla.
Anche il suono delle foglie, i tizzoni ardenti in un focolare, la sabbia sollevata dal vento, il mare insistente contro la battigia.
Tutto conteneva quella parola.
Quell'unica parola che trovava per descrivere il creato.
Bellezza.
Quell'aura di lieve divinità, impalpabile, effimera e mortale che avvolgevano tutto.
Quel dolce silenzio che pervadeva ogni cosa dopo la sua fine.
Quelle cose erano pervase di bellezza.
Non voleva, non poteva decidere di tenerle fuori dalla sua esistenza, nè semplicemente osservarle in silenzio.
Un dolce cullare continuo, un suono basso e graffiante, come un continuo spolverare la tela con l'orbace.
Un rullo di tamburo, come uno scalpello che modella la pietra.
La sua opera gli comunicava tutto quello.
Era l'uomo giusto, trionfante contro il male, l'ingiustizia e l'iniquo.
Era la Repubblica come doveva essere.
Si avvicinò al basamente, appoggiò un mano sul polveroso piede sinistro rivolto verso di lui e chiuse gli occhi, in ascolto con la fronte poggiata sul dorso della mano.
Respiro.
Un singolo respiro.
La materia prende forma.
Un'arcano essere plasmato dalle mani di un dio invisibile.
Un respiro, un primo vaggito, della polvere sospesa nell'aria.
Un blocco di marmo a malapena sbozzato in piena lavorazione, qualcosa di vivo.
Dal grezzo minerale dei movimenti, serpentini e naturali, muscoli contratti, fasci di nervi, stasi e movimento fusi in una sola, unica e perfetta sostanza.
Lo scalpello e il martelletto, la polvere bianca, la spatola e la malta. Strumenti di Dio, segno di una mano divina.
Michelangelo era guidato da qualcosa di invisibile, alto, illuminante.
Un braccio perfettamente liscio, naturale, definito, candido come la neve che di rado ricopriva Firenze.
Creava in silenzio, accompagnato dai sottili battiti di metallo e pietra, per ore.
Nel silenzio, nella sua ispirazione, terminava di scolpire i riccioli dei capelli, l'infossatura degli occhi, la piega delle labbra e la forma rotonda delle guance.
Sfiorava il volto della sua creazione con il pollice, ripulendola dalla polvere del marmo, sgretolato, ancora grezzo e senza la copertura della malta, senza stucco, ruvido.
Si chinò verso il volto del David e, dopo averlo scrutato attentamente, soffiò via ciò che non aveva tolto a mano.
Si trovava sull'impalcatura da ore forse, in cui aveva rifinito i dettagli del volto e della testa, ritrovandosi a rabbrividire per il freddo.
Alla porticina di legno bussò qualcuno, così, con uno sbuffo, appoggiò il scalpello e martelletto e scese dai ponteggi di legno.
Una volta giù, si colpì ripetutamente i vestiti e provò a ripulire la barba rada, ora coperta di bianco, fino a ritrovarsi ad aprire di poco il piccolo pannello di legno, lasciando visibile dell'interno solamente una sottile fessura, da cui si affacciò.
Il garzone era davanti a lui, che aveva spesso visto saltellare intorno alla commissione che era stata incaricata di decidere la posizione della statua.
Portava un sacco di iuta sulle spalle, pieno di chissà cosa.
Lui, irritato da quell'improvvisa e sgradita interruzione, gli lanciò uno sguardo carico di disapprovazione.
Con qualche balbettio confuso, gli porse il sacco, per poi borbottare un saluto e affrettarsi ad andarsene.
Michelangelo richiuse la porta con il sacco tra le mani. Quando lo aprì, trovò al suo interno una bottiglia di vino e un coccio con il coperchio legato ai manici con un laccio.
Poco dopo, si sedette a mangiare lo stufato di agnello, con un biglietto appoggiato davanti a sè.
Avrebbe ringraziato più tardi Da Vinci per lo sforzo, più tardi o più sicuramente il giorno dopo.
In silenzio, e senza fare parola di restuire il pranzo a chi si trovava fuori dai pannelli, riprese a lavorare alla statua.
Si arrampicò sulle impalcature con il secchio della calce in mano, le spatole di varie dimensioni e una cazzuola per aiutarsi nel lavoro.
Nel momento in cui finì di stuccare le ultime luci del giorno tingevano il cielo di un colore dorato, dai toni allo stesso tempo rosei e azzurri.
Il tempo gli sembrava essere passato in fretta, forse troppo.
Sospirando, mise giù la malta di calce e scese dall'impalcatura, pronto a tornare a casa.
Quando, una volta arrivato, chiuse la porta, camminò ancora per poco, prima di gettarsi sul letto, con ancora la polvere addosso, che da sempre lo accompagnava.
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Everything And Few
ContoQuesta piccola raccolta nasce da contest di scrittura, storie senza contesto e schizzi d'ispirazione. In questa raccolta troverete: -Storico; -Legal Drama; -Young Adult; -Song Fiction; -Fantasy Fiabesco; -Post Apocalittico; -Lettere;