quarantesimo capitolo

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"E tu cosa diavolo ci fai qui?!" Esclamò esterrefatta.

Il cuore di entrambi per un momento smise di battere.
Il sorriso di lei per un attimo si affievolì, ma poi tornò ad illuminare il suo viso.
Lo guardò negli occhi. Occhi uguali ai suoi che sognava tutte le notti. Occhi che le mancavano tutti i giorni, occhi che erano come una droga: li vedi una volta, ti stordiscono e non puoi più farne a meno.
Non se lo ricordava così. Affatto.
Spalle larghe, muscolose, abituate ad avere addosso il peso dei suoi pensieri e attrezzi da lavoro.
I capelli erano corti, cortissimi. Quasi non riusciva a vederglieli per quanto erano corti e chiari. Chiari come i suoi.
Sotto la luce del sole diventavano bianchi come fiocchi di neve che scendevano in una mattina fredda d'inverno.
Quanto le era mancato accarezzarli la sera prima di addormentarsi.
Sul mento si riusciva a vedere un accenno di barba che l'ultima volta non c'era.
Com'era cambiato dall'ultima volta.
Come erano cambiati dall'ultima volta.
Le sue labbra a cuore erano più rosee, si ricordava quando gli sussurrava di non avere paura.
Era diventata più bassa, o forse era lui che era cresciuto.
I suoi lineamenti dolci e a tratti bambineschi ora si erano accentuati, e la rendevano più grande. Più bella. Più donna.
Le braccia minute erano le stesse, però. Le stesse braccia in cui si trovava a casa dappertutto.
Le si avvicinò cautamente, come se avesse paura che un passo falso la facesse scattare e andare via da lui ancora una volta. Ma lei rimase ferma, decisa a lasciarsi andare una volta per tutte.
Si guardarono per un sacco di tempo negli occhi, quasi volessero scavarvici dentro per cercare le informazioni che volevano trovare.
Si abbracciarono dopo un'infinità di tempo.
"Marco, oddio, come mi sei mancato." Gli disse sussurrando nell'orecchio mentre lacrime sia di tristezza e di gioia le scendevano sulle guance.
"Anche tu Gigia. Mi sei mancata tantissimo."
A sentirgli dire il soprannome con cui la chiamava sempre, altre lacrime si versarono sul suo viso.
Le venne in mente Paulo.
Che cosa stava facendo ora? Stava festeggiando per aver finito la farsa?
Era con i suoi amici?
Era con la sua ragazza? La sua vera ragazza?
Oppure era come lei, distrutto dal dolore, con il cuore pesante che batteva ogniqualvolta che un suono o un oggetto glielo ricordava.
Erano passate meno di ventiquattro ore da quando la sua favola era finita, ma sembrava che il tempo si fosse fermato a quel momento.
Sentiva ancora il suono del suo cuore che si rompeva a sentire tutto quello che Paulo le aveva sputato addosso.
Come aveva potuto crederci veramente? Come aveva potuto credere che uno come lui l'amasse veramente, ci tenesse davvero a lei.
Si sentiva una stupida. Era una stupida.
Non capiva cosa avesse di sbagliato. Perché alla fine non sono mai felice? Chiedo troppo? Mi aspetto troppo? Si chiese.
"Ti prego, sorellona. Non partire più, non andare più via da me." Le chiese invece suo fratello, stringendola più forte.
"Non me ne vado. Ma tu devi promettermi di esserci sempre."
"Sempre, sorellona. Sempre."
{...}
Su un aereo diretto a San Francisco
Non si ricordava l'ultima volta che aveva preso un aereo di linea. Non ricordava nemmeno com'era non viaggiare in prima classe. Eppure, quando ancora non era un calciatore professionista, lo aveva fatto una decina di volte.
Il tizio sudato che ti dormiva sulla spalla, i sedili messi l'uno così vicino all'altro, scomodi e sporchi, ragazzetto di dodici anni che ti tirava calci sullo schienale e non stava fermo un attimo e poi le famiglie con i bambini che non smettevano di urlare: iniziavano alla partenza, ogni cinque minuti di orologio facevano una pausa per prendere fiato, e poi ricominciavano così con un ciclo infinito di urli e pause.
Si mise a leggere la rivista di cucina giamaicana che si era trovato sul sedile. Il tempo gli sembrava infinito, e la mancanza di comfort a cui era ormai abituato non aiutava per nulla a farlo sentire un po' meglio.
Lesse una ricetta per degli spiedini di pesce che dalla foto sembravano buonissimi, ma appena lesse che per impanarli bisognava usare il grasso di anaconda la colazione gli venne si e fu costretto a recarsi al bagno.
La maniglia era sporca e appiccicosa, la tavoletta del bagno era bagnata da qualche goccia di pipì e sullo specchio vide un liquido quasi trasparente.
"Dios, ¿Qué es eso? ¡Madre de Dios! ¡Esperma! ¡Repugnante!"
L'aereo si mosse a causa di una turbolenza e si coprì la bocca con una mano per non sporcare quelle che si poteva letteralmente chiamare cesso e cercò di rimanere in equilibrio sulle sue gambe ma non ci riuscì, cadendo e andando quasi a finire con il viso nel gabinetto.
"No es posible. Prefiero nadar que quedarme aquí."
Appena fu sicuro che il veicolo era stabile si mise in piedi e vomito nel water, stando attendo a non toccare la tavoletta sporca.
Quando sentì che non aveva più bisogno di rimettere, si lavò le mani e uscì dalla cabina, vedendo che per colpa sua si era formata la coda.
"Perdonatemi." Disse a testa bassa per poi tornare di fretta al suo posto.
Appena si sedette il bambino si rimise a piangere e il ragazzino dietro di lui ricominciò a tirare calci al suo sedile.
"Nanerottoli de mierda."
Appoggiò la testa sul punto più morbido dello schienale e provò ad addormentarsi.

Accarezzami l'anima // Paulo DybalaDove le storie prendono vita. Scoprilo ora