•Capitolo 26•

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Ogni muscolo che avevo in corpo si irrigidì, mentre mi voltavo con l'assoluta certezza di essermi sbagliata. Perché non poteva trattarsi di lui. Non era possibile. Non lo era per un milione di ragioni.

E, invece, mi sbagliavo.

I miei occhi si immobilizzarono sul paio di anfibi neri quanto la notte, per poi correre lungo le gambe lunghissime rivestite dai pantaloni in pelle, poi sulla giacca alla marinara del medesimo colore ed infine si soffermarono su quel viso che aveva tormentato i miei sogni per i mesi nei quali mi aveva salvato e i miei incubi quando era sparito dalla mia vita. La carnagione ambrata era sempre la stessa, gli zigomi altissimi non erano cambiati. I capelli biondi, tanto chiari da sembrare bianchi, gli incorniciavano il volto dai lineamenti definiti, più lunghi dell'ultima volta. Il mio cuore si fermò, tremò tra le costole e poi cominciò a battere molto più velocemente quando i miei occhi entrarono in collisione con i suoi. Occhi neri come la pece o come le zone più oscure dell'universo. Due buchi neri nei quali ero affondata e mi ero persa più volte. Occhi tanto bui da rendere inesistente la pupilla. Ma io sapevo che dietro si nascondeva qualcos'altro, qualcosa di molto simile ad un essere umano. Perché seppur nel buio, qualche volta ci avevo scorso la penombra e in quella penombra c'era un calore che lui, l'angelo della morte, non mostrava spesso.

Aaron era di fronte a me. Battei le palpebre più volte, sforzandomi di scacciarlo dalla mia mente, di affrontare a testa alta la parte di me che voleva disperatamente che lui restasse proprio lì dov'era, in piedi al centro della stanza, con quella sua aura oscura e angelica. Una parte di me continuava a sforzarsi e ripetere che averlo lì, di fronte a me, dopo tutto quello che aveva fatto, non mi faceva alcun effetto. Continuavo a ripetermelo, a desiderare che mi facesse ribrezzo. Proprio così, il demone travestito da angelo, avrebbe dovuto soltanto provocarmi rabbia incandescente e risentimento. E sì, anche loro stavano venendo in superficie, portando a fondo la sorpresa e l'assoluta meraviglia della sua bellezza sovrannaturale, eppure mi sembrava impossibile distogliere lo sguardo dal suo o provare quel dolore che mi stava pungendo viva. Come una ferita non rimarginata, dalla quale cominciava a sgorgare sangue a fiotti.

E all'improvviso mi ricordai che lui non era solo Aaron, ricordai la sua etichetta di angelo della morte e realizzai quali fossero le sue capacità. Realizzai che avrebbe potuto portare via Noah, ucciderlo. Perché questo era il suo lavoro. Occuparsi delle persone. Così si era definito tempo prima, ad una ragazza sola e spaventata. A me, alla Dakota fragile come vetro e rotta come un vaso gettato sul pavimento. E lui ne aveva raccolto i cocci, poi se ne era andato. Mi aveva lasciato da sola, senza alcuna spiegazione. Se n'era andato e basta.

Mi sollevai rapida dalla sedia, dimenticandomi tutto quello che c'era stato. Lanciai istintivamente un'occhiata a Noah, il timore che potesse accadergli qualcosa di male più forte di qualsiasi altra cosa. Afferrai la sedia su cui ero seduta e ne strinsi con forza lo schienale. La sollevai di fronte a me, le gambe in metallo puntate su di lui.

«Non ti avvicinare» ringhiai, come un animale selvaggio che doveva difendere i propri piccoli. Avevo il fiato corto, gli occhi ancora appannati dalle lacrime.

L'espressione di Aaron non mutò. Rimase impassibile. «Sai che non ti farò del male» asserì con quella voce gutturale e profonda che mi aveva incantata in notti piene di incubi.

E il dolore si fece più acuto, mi fece fischiare le orecchie. «Non so niente» ribattei in tono duro, il viso distorto dalla rabbia. Una rabbia e un risentimento che avevo accumulato per un mucchio di tempo. Ed ero pronta a gettargliela contro nel peggiore dei modi. «So solo che sei piombato in questa stanza e che potresti uccidere chiunque.»

The Bad boy's SoulDove le storie prendono vita. Scoprilo ora