Il calore della luce mi scaldava il viso, freddo dalle lacrime che lo avevano bagnato per tutta la notte. Non avevo chiuso occhio. Come avrei potuto, col suono strozzato dei singhiozzi di mia mamma?
L'avevo sentita camminare per la stanza, avanti e indietro, tutta la notte. Quando non piangeva telefonava a papà, lui però non rispondeva. Facile capirlo, dato i numerosi insulti che gli rivolgeva a voce bassa, per non svegliarci, interrotti solo dai suoi singhiozzi.
Io, nel mio letto, mi ero sentita impotente.
Le macchine mi sfrecciavano accanto, facendomi svolazzare i capelli ancora bagnati. Mi ero alzata al suono della prima sveglia ed ero andata a farmi una doccia, desiderosa di lavarmi via di dosso l'angoscia che sembrava aleggiare per casa, in ogni stanza, e nella mia anima. L'acqua calda e il vapore non cancellarono i pensieri che mi avevano afflitto per tutta la notte, al contrario, li alimentarono. Sola con me stessa restai sotto la doccia per troppo tempo e, per non fare tardi, rinunciai ad asciugare i capelli.
La strada verso la scuola non mi era mai sembrata così lunga.
Travis, accanto a me, non spiccicava parola, mentre io avevo così tante cose da dire. Soprattutto su papà, con cui ero veramente arrabbiata. Era andato via di casa senza dire dove stesse andando, o quando sarebbe tornato. Non aveva risposto alla mamma, nemmeno una volta, nonostante le numerose telefonate.
Avevo pensato anch'io di chiamarlo, ma l'idea, veloce com'era apparsa, allo stesso modo l'avevo accantonata. Non avrei saputo cosa dirgli. Da una parte ero preoccupata, non sapendo dove fosse, dall'altra avrei tanto voluto urlargli contro tutta la rabbia che provavo, sbattergli in faccia la sofferenza che aveva portato, alla mamma, alla nostra famiglia.
Più di tutto, però, volevo semplicemente sapere... perché?
Stavo scoppiando. La testa mi faceva male e gli occhi erano rossi e gonfi dalle lacrime che avevo versato. Stavo uno schifo e mi si leggeva in faccia.
Nemmeno Travis era riuscito a dormire: l'avevo sentito fare avanti e indietro dalla sua camera a quella della mamma, senza entrare nemmeno una volta.
Camminava velocemente, tant'è che per stare al suo passo dovetti fare una piccola corsetta. «Mi aspetti?» lo richiamai, raggiungendolo. Aveva gli occhi circondati da due profonde occhiaie, a causa della notte insonne, e il viso contratto in un'espressione arrabbiata.
«Tutto bene?» gli chiesi, preoccupata.
«Sì» rispose stizzito, aumentando il passo.«Rallenta!» dissi, cercando di stargli dietro. E non era facile, considerando le gambe lunghe che aveva lui, e il fiato corto che mi trovavo io.
«Mi vuoi lasciare in pace?!» urlò, fermandosi di colpo. Lo fissai, spiazzata dalla sua reazione e dai suoi occhi, che mi guardavano in cagnesco.
«Ma che hai?» dissi, cominciando ad irritarmi.
«Che ho?» sbuffò una risata, indicandosi con l'indice sul petto. «Che hai tu!» disse, rabbioso.
«A casa va di merda da giorni. Mamma e papà litigano di continuo, e tu?» mi puntò un dito contro con fare aggressivo, tanto da spaventarmi. «Dove te ne vai per tutto il tempo? Ti lamenti di continuo, ma pensi mai a qualcuno che non sia tu? Fatti un cazzo di esame di coscienza, Katherine!» urlò, sputando ogni parola con risentimento, come se le trattenesse da tempo.
Si voltò, tornando a camminare verso la scuola, lasciandomi lì, immobile, congelata dalle sue parole cariche di rabbia.
Dopo qualche istante di smarrimento scoppiai in una risata nervosa, guardandolo allontanarsi.
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Broken || Michael Clifford
FanfictionKatherine è un'adolescente come tante altre: va a scuola, studia, ed esce con gli amici. L'adolescenza è considerata l'età migliore della nostra vita, sono gli anni delle prime cotte e dei primi amori, le prime delusioni, le debolezze che vengono a...