Capitolo 7

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[LOUIS’S POV]

Mi sentivo un mostro, anzi ero un mostro: infantile, incapace di prendere una decisione, di capire cosa fosse giusto oppure no.
Ero stato cresciuto in una famiglia all’antica, con la rigida idea che provare qualcosa per qualcuno dello stesso sesso era sbagliato; in quel momento il mio corpo cercava ogni attimo di togliersi quelle catene, quelle costrizioni, quelle idee che sentivo estranee a me probabilmente per l’emozioni che provavo per Harry anche se non avevo bene capito cosa sentissi veramente per il riccio dagli occhi smeraldo.
Con lui, in quei pochi giorni e attimi insieme, avevo scoperto una nuova parte di me stesso, sentivo di avere qualcosa di più profondo da scoprire e avevo realizzato quando ero diverso rispetto alla persona per cui mi porgevo.
Non avevo mai incontrato una persona alla quale affidare la mia anima, qualcuno di cui mi fidavo, qualcuno con cui sentivo un legame speciale, come un filo invisibile indistruttibile.
Forse stavo facendo tutto questo per capire chi ero veramente, me ne approfittavo di Harry e di Gemma per trovare una nuova strada da percorrere, una vita che sentissi più mia.
Innamorarmi fu solo un imprevisto.
Forse era un’idea affrettata ma il sorriso involontario quando pensavo al riccio, la voglia di assaggiare le sue labbra al solo vederlo, tutte queste sensazioni così sbagliate, contro me stesso, mi facevano capire quanto importante fosse quello che provavo per lui.
Qualcosa nato troppo in fretta forse anche per esistere, una linea che ci univa ancora troppo fragile.
Una linea che univa me e la persona che probabilmente in quel momento mi odiava più di qualunque altra cosa.
«Amore. Puoi andare ad avvisare Harry che il pranzo è in tavola?» disse Gemma con fare dolce.
«Va bene tesoro.» risposi con un sorriso.
E mentre salivo le scale, anche solo per avvicinarmi alla porta di Harry, sentivo le gambe tremare, colpevole di ciò che era successo quella mattina e di quei sentimenti sbagliati che sentivo.
Bussai ma nessuno rispose così, senza aspettare nessun consenso, aprii la porta e lo vidi accovacciato sul letto con le gambe al petto e la testa rivolta verso il basso.
«Ehi, mi hanno detto di avvisarti che è pronto.» sussurrai con la paura di dare fastidio, senza un briciolo di quella spavalderia che mi caratterizzava.
«Ok.» rispose con voce roca e tremante prima di alzare il viso.
Fu così che mi accorsi come le sue pupille erano rosse di pianto. Non mi parlò, ma mi ammazzò con un’occhiata, quasi volesse dirmi ‘Tu mi hai ridotto così.’
Presi un respiro, quasi per cercare la forza di parlare e, in qualche modo, sembrare meno ipocrita sia verso me stesso che nei confronti del riccio.
«C’è qualcosa che non va?» chiesi mentre ero ancora appoggiato allo stipite della porta, consapevole che ero io la causa di tutto ciò che stava passando Harry.
«Non so, dimmi un po’ tu cosa ne pensi!» sbottò verso di me con espressione delusa e amareggiata allo stesso tempo.
Presi forza, coraggio ed entrai in camera del riccio, dopo aver accostato la porta di legno bianca che ci divideva dagli altri, mi sedetti al suo fianco sul letto a una piazza e mezza.
Non si spostò da dov’era, si limitava a guardarmi, mi stupivo ogni attimo della sua forza nonostante la sua giovane età e quello che io gli avevo fatto vivere e gli stavo ancora facendo vivere.
Non sapevo cosa dire, non sapevo come consolare una persona che prova dolore e la causa di esso sei tu, nessuna frase avrebbe avuto senso, ero incapace di parlare perché, nonostante lo nascondessi, quello che sentivo era ancora troppo incerto e improbabile per essere vero.
«Non c’è bisogno che tu stia qui. Vai giù dalla tua fidanzata..» disse Harry a denti serrati con voce flebile.
«No, non vado da nessuna parte finché tu stai così.» cercai di essere convincente ma non riuscii a convincere nemmeno me stesso.
«Ti sei chiesto perché sto cosi? Te lo sei chiesto?! La tua presenza qui non fa altro che peggiorare tutto.»
I sensi di colpa mi assalirono come un freccia trafitta nel mio stomaco, vedere quel ragazzo stare male mi rendeva triste, provavo il suo dolore sulla mia pelle, come per empatia e non mi era mai capitato con nessuno: ero una persona fredda che difficilmente prova sentimenti o emozioni proprie e altrui, ma al fianco di Harry tutto cambiava, mi sentivo migliore, mi sentivo meglio, più vero, caldo e vivo.
Non risposi nulla, sapevo di essere io la causa di tutto quel dolore.
«Smettila! Smettila di starmi vicino, di fare l’amico, il fratello o qualunque altra cosa. Non voglio subire i tuoi giochetti anche qui. Ti sei divertito a vedermi ridotto così? Bene, ma ora basta, ti prego.» disse con voce bassa, quasi fosse uno scongiuro.
«Hai degli occhi bellissimi.» balbettai incapace di dire altre cose o descrivere quello che vedevo e sentivo dentro; sul viso di Harry comparve un sorriso sghembo e imbarazzato dal complimento.
«Vedi? È questo che intendo. Perché continui a comportarti così, a dire queste frasi?»
«Non lo so perché lo faccio, ok?  Mi viene naturale, è qualcosa che non posso frenare. Quando sono con te non penso a nessuna conseguenza, faccio e dico le cose che mi vengono in mente senza pormi nessuna barriera.» ammisi tutto d’un fiato.
«Non capisco.» disse voltandosi verso di me con gli occhi corrucciati per il dubbio.
«Neanche io, è.. qualcosa di completamente nuovo.» mi aprii, dissi quel poco che la mia mente aveva capito, sapevo che di quel ragazzo potevo fidarmi nonostante tutto, lui mi aveva regalato una piccola parte di sé anche solo con un misero bacio dopo tutto quello che gli avevo fatto, era una persona speciale.
«Siamo in due. Io ho in testa il casino più totale.» disse con un filo di risata nella sua voce mentre la sua mano si appoggiò sul mio ginocchio, come per rassicurarmi, farmi sentire meno solo nonostante fosse lui la persona che doveva essere consolata, non io.
«Cosa facciamo, quindi?»
«Quello che ci fa sentire bene.» disse con un abbozzo di sorriso sul viso.
Eravamo su quel letto, in una stanza che sembrava un mondo parallelo in cui ogni cosa e ogni problema pareva se ne fosse andato; eravamo due cuori che battevano all’unisono con un ritmo per niente costante come se mille tamburi suonassero senza un ordine preciso: dentro di noi regnava il caos.
Un abbraccio, qualcosa di semplice, il gesto a volte più scontato e comune ma allo stesso tempo è come se le braccia di qualcuno ti sorreggessero in piedi e tenessero insieme i pezzi del tuo corpo e del tuo cuore, le macerie della tua esistenza.
Un abbraccio imbarazzato tra me e Harry, la mia testa all’altezza della sua spalla, appoggiata ad essa mentre i suoi ricci accarezzavano il mio viso.
In quel momento non avrei voluto essere in nessun’altro posto al mondo.
L’amore ha sempre un nome, un sorriso e un paio di occhi bellissimi; in quel momento sentivo che l’amore era Hazza, le sue fossette e i suoi grandi occhi verdi.
Forse stavo impazzendo.
 




[HARRY’S POV]

Credo sia capitato a tutti di abbracciare una persona e sentirsi al riparo.
Tra le braccia di Louis mi sentii per la prima volta così, come se lui, con le sue braccia strette al mio corpo, riuscisse a proteggermi da ogni cosa e riuscisse a tenere insieme i pezzi di me.
Ero quel tipo di persona che se non le abbracci spesso crollano; era proprio così, prima che Louis entrasse in camera, prima di quell’abbraccio, sentivo che stavo toccando il fondo, sentivo che non ero più capace di controllare me stesso e le mie emozioni, come se ogni cosa mi stesse sfuggendo di mano, come se nonostante gli sforzi per stare in piedi c’era qualcosa, una forza estranea, che continuava a farmi inciampare, a farmi a cadere, a buttarmi a terra.
Non mi interessavano le parole che ci eravamo detti poco prima, Louis avrebbe anche potuto stare zitto e solo con quell’abbraccio avrei capito tutto.
Capito cosa?  
Che Louis era una persona speciale, che con me si sentiva libero, che stava bene al mio fianco, che tutto quello che mi aveva detto in quegli anni probabilmente non lo pensava.
In quel momento era come riprendere il respiro dopo essere stato in apnea più dei limiti di sopravvivenza.
«Ci conviene scendere..» disse dopo essersi staccato da me.
«Tu vai, io arrivo tra un attimo, devo finire una cosa.» 
Aspettai che Louis fosse uscito dalla camera, controllai che la porta in legno fosse chiusa e rovistai sotto il cuscino per ritrovare quell’oggetto che premevo sui miei polsi quando pensavo di essere arrivato alla fine, lo feci rigirare tra le dita e lo rimisi al suo posto nel bagno adiacente alla mia camera.
In quel momento, dentro, mi sentivo bene.
Sorrisi, un briciolo fiero di me stesso e, allo stesso tempo, grato a Louis; era assurdo come quel ragazzo fosse passato dall’essere la causa del mio dolore ad esserne la cura.
Probabilmente il mio comportamento era stupido e ingenuo, ma ogni piccola parola di Louis, ogni suo gesto e suo ogni sorriso cambiavano completamente il mio umore; realizzai che davo troppa importanza alle piccole cose che mi circondavano forse perché erano le uniche che avevo.
Mi diedi una sciacquata al viso per eliminare ogni segno e rossore dovuto al pianto e scesi per raggiungere la mia famiglia a tavola; mi sedetti a tavola cercando di evitare un contatto visivo con chiunque fosse in quella stanza.
Chi scappa da tutti vuole solo essere fermato da qualcuno.
Forse il dolore dentro di me era sparito ma dentro la mia testa sentivo come se continuassero ad esplodere bombe.
«Gemma, non so se oggi pomeriggio vengo in spiaggia: stamattina mi sono svegliato presto e sto crollando dal sonno; tu vai, non devi perdere una giornata per me.» disse Louis rivolto a Gemma con il viso basso.
Gemma annui, d’accordo con l’idea del ragazzo.
Era crudele da pensare ma per quei pochi attimi antecedenti mi ero dimenticato di mia sorella, del fatto che la persona che mi faceva stare così bene fosse il suo “fidanzato”; ogni senso di colpa possibile mi attanagliò per qualche istante lo stomaco poi, sfortunatamente, mi resi conto che tra me e Louis c’era solo un legame, non sapevo di quale tipo, ma niente da poter dire ‘sto tradendo mia sorella e la sua fiducia’, almeno non fisicamente.
«Harry, stai bene?» chiese mio padre che, raramente, si preoccupava per me.
Alzai le spalle senza formulare una vera e propria risposta mentre spostavo il cibo nel piatto senza nessuna voglia di mangiare.
«Anne guardalo, non ti sembra pallido?» proseguì mio padre cercando di attirare l’attenzione della persona che mi aveva messo al mondo.
Mia madre si voltò e annui impercettibilmente con la testa; si avvicinò a me e, premurosamente come quando ero piccolo, mise la sua mano sulla mia fronte per controllare la temperatura.
«Hai mal di testa?» chiese con occhi preoccupati.
«Un po’..»
«Harry, sei bollente! Quanto tempo sei stato stamattina al sole?» 
Il mio sguardo si mosse nella stanza incontrando quello di Louis che, imitando mia sorella, mi stava fissando.
«Qualche ora..»
«Harry, lo sai che non devi; anche da piccolo appena stavi un po’ troppo al sole prendevi un’insolazione!»
Sbuffai per la ramanzina che avevo ricevuto come se fossi ancora un bambino.
«Non ho più otto anni, posso benissimo gestirmi da solo, è solo un po’ di febbre! Non dovete preoccuparvi così tanto.» controbattei con voce tremante insicuro di quello che stavo affermando; come risposta mia madre mi scompigliò i capelli proprio nello stesso modo in cui lo faceva quando ero piccolo.
Mi alzai dal tavolo con la testa pesante e forti dolori alle tempie; chiesi se potevo andare in camera nonostante non avessi mangiato quasi nulla, i miei genitori annuirono e salutai tutti con un gesto della mano prima di salire le scale.
In quel momento -in ogni momento- avrei voluto un altro abbraccio, uno di quelli di Louis.

Treacherous || Larry StylinsonDove le storie prendono vita. Scoprilo ora