Ho sempre pensato che io e te fossimo sbagliate, che fossimo roba d'altri. Gli altri ci guardavano e l'idea di noi due, insieme, gli apparteneva più di quanto noi ci appartenessimo l'un l'altra.
Nessuno poteva togliermelo dalla testa.
Mentre qualcuno ci parlava, c'era sempre un momento in cui smettevo di ascoltare e pensavo che cercare di capire cosa pensassi di lui fosse più importante. Quello doveva essere il mio modo di farti mia, perché tu avresti dovuto abbassare le difese. In realtà, sapevi sempre quando arrivava il momento in cui iniziavo a scorrere la punta degli occhi sul tuo profilo, dalla fronte sporgente al naso dritto, e non girando mai lo sguardo, ingarbugliavi la fronte con l'espressione da finta interessata. Solo per impedirmi di capire. Forse stavi cercando di spiegarmi che per quanto avessi potuto sforzarmi, tu non mi saresti appartenuta mai e che avresti continuato ad essere roba di tutti tranne che mia.
Così ho smesso di domandarmi perché tu non volessi alleggerirti di tutte le cose che ti tenevano sveglia la notte, tutte le canzoni che ti rimanevano chiuse in testa, di tutta te stessa. Tu rimanevi tua e di nessun altro. Ho smesso di chiederti in silenzio di essere mia, anche se ne avevo bisogno.
Poi, ho capito.
L'ho capito una sera di quelle che si ripetevano sempre uguali, tra il divano, la coperta e i tuoi tè odorosi. Io ero a letto da un po', perché quei servizi sul riscaldamento globale e le foreste che continuavano a piangere mi mettevano l'angoscia di vivere. Tu, invece, ne andavi matta e io ti lasciavo fare finchè non avessi finito. Qualche volta non resistevo e crollavo prima del previsto, ma quella sera non era una di quelle.
Ti aspettavo e tu, nel silenzio cieco della camera, ti sei infilata tra le mie braccia senza fare rumore, pensando, forse, che non meritavo di addormentarmi con un letto mezzo vuoto e un divano ancora pieno.
Sai, lì ho capito: era troppo tardi per far sì che fossi mia, mia e di nessun altro, perché tu appartenevi già a te stessa, in tutti gli spigoli e angoli che ti componevano, e nessuno poteva strapparti dalla tua pelle. O almeno non poteva farlo con la stessa facilità con cui tu avresti potuto strappare me dalla mia. Quindi, sì, lo avevo capito.
Ma poi, come la bassa marea che torna ad accarezzare il mare dopo gli schiaffi presi, ho capito un'altra cosa: non eri mia, non lo saresti stata, eppure lasciavi che una sola persona si prendesse cura delle cose che ancora non conoscevi di te e che inevitabilmente ti facevano paura. Come dormire sola o come i documentari sul riscaldamento globale.
Non eri mia, ma una parte di te avrebbe voluto esserlo: e sai, a me questo bastava.
-LGiovedì, 30 Luglio
"Sicura che non avevi nessun servizio da fare?"
Faccio correre la sabbia lungo lo scivolo che creano le mie gambe, inclinando la testa da un lato per paura che il sole mi faccia arrossare il naso. Federico non me lo perdonerebbe mai.
"Smettila di chiederlo e rilassati."
Aurora sospira prima di strizzare la crema tra le pieghe della mano e il tubetto fa quella buffa pernacchia che fa ridere tutti i bambini.
So che sei nervosa e so anche che è colpa mia.
Di me che non mi spiego mai, che parlo solo al capolinea, quando sto per perdere qualcosa, finchè parlare mi stanca e torno a lasciare spazio ai silenzi.
Di me che mi nascondo tra le ombre dei quadri.
Però guardaci, siamo qui.
Sento il profumo della sua pelle secca di sale che scompare nell’aria, coperto dalla misticanza di odori da farmacia sintetica. Tengo gli occhi chiusi, perché il sole non ha mai smesso di allacciarmi le ciglia, finché sento le sue mani fredde sulle spalle.
Tremo.
"Con che coraggio te ne stai qui con la tua pelle bianco malato senza protezione?"
"Bianco malato.." ripeto con mezzo sorriso.
Aurora passa la punta delle dita sulla mia schiena e io penso che mi stia disegnando le sue paure, così che lì dietro non possa vederle se non riflesse in uno specchio in cui entriamo tutte e due.
Quando apro gli occhi, lei è davanti a loro che aspetta che faccia lo stesso con le sue spalle già arrossate.
"Vieni qui, Heidi dalle guance rosse. Girati."
Aurora si muove in maniera impercettibile, come un gatto di porcellana che viene accarezzato, quasi non volesse dare a vedere che ogni volta che le sfioro la colonna, la sua pelle raggrinzisce.
Ora gira la testa verso quella coppia che si stringe a qualche decina di metro da noi, come se non facesse così caldo, come se non fossero le due di pomeriggio, la spiaggia deserta e gli ombrelloni senza nessuno da proteggere. Lui ha i jeans macchiati di sudore arrotolati fino a metà polpaccio, ma a lei non importa: lei guarda il mare con il mento sulle sue braccia.
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Tre sono le cose
RomanceLudovica non era come suo padre e neanche come sua madre. Non voleva diventare un'imprenditrice come suo fratello e non voleva rimanere nel grigiore di Como come aveva fatto Davide. Ludovica voleva vivere tra l'arte, sulle copertine, dietro la luce...