Capitolo 12 ~Non te ne pentirai~

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[#12. Sei rotto?]
Come un figlio non voluto
o un futuro ormai perduto.
Siamo rotti, ma ho comprato la colla.
Si chiama droga.

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     Mentire era inutile, soprattutto perché non aveva una millata per sostituire l'eroina sottratta da Dante.
Gli costava una gran fetta della torta dell'orgoglio lasciar vincere Elvis e ammettere così di essere una pedina sostituibile.
Lasciava l'amaro in bocca.
Elvis non disse nulla, scosse la testa e uscì per fare una chiamata senza mai smettere di sorridere.
Era contento.
Cazzo, pensò Sergio.
Elvis era contento perché non vedeva l'ora di ammazzare qualcuno.

A quel punto toccava a Danilo infierire. «Te sei dimenticato de me?». La domanda arrivò in contemporanea con il pugno nello stomaco. Danilo gli prese il mento e lo obbligò a guardarlo.
«Ma te pare?», domandò a sua volta Sergio, il fiato corto. «So tutto tuo», sorrise spavaldo, nascondendo il dolore allo stomaco, reso più sensibile dai lividi della notte appena trascorsa. Danilo caricò un nuovo pugno, regalandogli una costola incrinata.

Fece un passo indietro e posò il culo sulla scrivania del capo prima di parlare. «Sempre le solite cazzate», sputò le parole. «Ogni vorta te credi più furbo dell'altri». Danilo alzò le sopracciglia e mimò un gesto da nobile. «Se vede lontano un chilometro che ce voi fregà», aggiunse senza sbattere le palpebre neanche una volta.
Quello era un ragionamento complesso. Strano, non credeva il cervello di Danilo in grado.

«M'hai appena pestato er piede Sé, sai che vor dì?», domandò e ancora, rapido come un mitra, continuò: «Che sarò io a preme er grilletto».
Entrambi volevano essere il boia e un oceano di possibilità si apriva loro l'orizzonte. Potevano giocarsela a "sasso, carta, forbici", oppure a "testa o croce", magari potevano sparare insieme. In qualsiasi caso per Sergio non sarebbe stata una bella giornata.

Dalla conversazione al telefono di Elvis riuscì a carpire solo: «Du spicci sull'occhi?*».
No, non era un buon segno. E poi con chi diamine stava parlando?
Fanculo Dante!, pensò.

Era stato da ingenuo credere di poter riprendere da dove si erano fermati due anni prima.
Da coglioni invece era stato lasciarlo girovagare per casa, dimenticando un piccolo dettaglio: Dante era un tossicodipendente, doveva essersi sentito come Pinocchio nel Paese dei balocchi con tutta quell'eroina tra le mani. 

I pensieri erano scanditi al ritmo del cuore di Sergio, la botta di coraggio in polvere, presa prima di entrare, lo aveva mandato in tachicardia.
Tu-tum tu -tum. Correva sui binari a trecento-trecentocinquanta battiti al minuto, togliendogli il respiro.

A interrompere la corsa fu il rumore della porta e il ritorno di Elvis. L'autoproclamato "Re dell'eroina" spiccava sullo sfondo trasandato del locale. Era vestito di tutto punto, arrotolato in un bianco abito elegante. Le grosse caviglie da muratore finivano in due mocassini lucidi. E per concludere in bellezza, sopra la pancia romana da alcolizzato, si presentava vistosa una collana dorata.

«Sì», annuì Elvis.
«Sì-Sì», annuì ancora, accompagnando la parola con il gesto della testa. «Ce penso io», concluse la chiamata. «Gniente da fa», disse a Danilo e sistemò il cellulare nel taschino al posto del fazzoletto. Un gesto da burino, ma non ci si poteva aspettare altro da uno trasferitosi da Anzio, negli anni ottanta, con l'intenzione de piasse Roma. Alla fine si era ritrovato a fare il distributore, proprio come Zia Franca, ma al contrario della donna, Elvis credeva di essere un vero criminale con licenza di uccidere.

La fortuna per lui era girata quando Carlo Fracchini - in arte Bang er matto - si era trasferito, di sua spontanea volontà, nel carcere di Regina Coeli. A quel punto Elvis era salito al grado onorevole di "Boss per corrispondenza", finendo per obbedire a ogni ordine di Carlo, come un cucciolo addestrato a fare i bisogni fuori casa.

Per qualche motivo Carlo aveva decretato Sergio meritevole di vivere ed Elvis poteva solo obbedire.
«Cazzo aspetti? Vai a trovà quell'eroina!», ordinò, scattando sul posto, nervoso.
Sergio non se lo fece ripetere due volte, voleva lasciare quel locale il prima possibile. Si alzò e calciò la sedia sotto di lui. «Cazzo, non te ne pentirai», disse prima di uscire.

Aveva fatto qualche chiamata per escludere, tramite la rete di spacciatori di Elvis, i quartieri dove sicuramente non stava girando la bianca thailandese e una soffiata gli indicò San Lorenzo. Quaranta minuti di tram dopo e senza più cocaina come carburante, Sergio iniziò a sentirsi stanco e affaticato.

«Stiamo passando accanto a uno dei primi ritrovamenti di graffito romano: il Mick Jagger sulla serranda del negozio di dischi. È storia. E più avanti potete ammirare le famose poesie sui muri, una recita: "Anna, te amo tutta quanta". Sublime!».

Lo speaker immaginario dell'allucinazione di Sergio stava illustrando le bellezze del posto.

«Infine, alla vostra sinistra, la chiesa di San Lorenzo, dove i santi non sono ammessi e spacciatori e troie passeggiano in un presepe dove la neve non è semplice acqua ghiacciata».


Ah, quartiere San Lorenzo, costruito da abusivi nel 1884, era il perfetto esempio di periferia nel pieno centro di Roma.
Non c'erano solo novelli Giorgio Mastrota pronti a vendere la droga in comode rate a partire da "dammi tutto quello che hai"; San Lorenzo rimaneva uno dei quartieri più affascinanti di Roma. Almeno così lo presentavano i volontari dell'associazione "Periferie al centro". Tutte stronzate.

Era come affogare [boyxboy]Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora