4. Freedom

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Il weekend è la parte che odio di più. Due maledetti giorni in una casa che odio, con persone che mi odiano e troppi ricordi che odio. Nonostante la custodia sia andata a mia madre, visto che mio padre ha deliberatamente rifiutato, mi tocca andare nei fine settimana a casa di quest'ultimo, visto che mia madre è via per lavoro. Odio quello schifo di casa. Non che non sia bella, anzi, pare una reggia talmente è enorme. Ma odio come ci si sente in quella casa. Ti senti sola in una minuscola stanza rispetto all'enormità dell'edificio. Proprio come noi. A volte ci sentiamo piccoli e soli in un mondo così grande e popolato. Mia madre mi ha appena scaricata davanti al "castello" e la saluto con un cenno della mano. È ancora incazzata per la serata in discoteca. Sbuffo mentre mi infilo gli auricolari nelle orecchie. Ormai è sempre così. Entro, evito tutti, mangio il necessario, ascolto la musica, dormo ricaricando l'Ipod, mi sveglio e sopporto ancora la domenica allo stesso modo. Dopo aver suonato al campanello, alzo il volume al massimo e me ne frego altamente della ragazza mora che mi ha appena aperto la porta. Lei è la presunta figlia di quella cretina di una Mary, la nuova fidanzata di mio padre.

La ragazza, della quale il nome non ricordo, mi sta parlando ma continuo a fregarmene. Entro nella reggia, della madre ovviamente, con il mio borsone che ogni settimana preparo per questi due giorni infernali. Sbadiglio e salgo le scale che portano alla sala degli ospiti, ormai diventata mia. La stanza bianca assomiglia tanto ad una stanza d'ospedale, ma non ci posso fare nulla. Mi sento toccare il braccio e mi volto, notanto la figura della tipa senza nome che mi sta fissando con aria infastidita. E poi sarebbe lei l'infastidita. Mi levo le cuffiette. -Che vuoi?-

-Senti, ragazzina che non sei altro, la devi smettere di entrare in casa in quel modo senza salutare e chiedere permesso. Per di più non crederti figa solo perché nel weekend vieni in questa casa così lussuosa che tu e la tua mammina non potete permettervi perché siete troppo povere da...-

La stronza non finisce la frase e non la finirà mai, perché il mio braccio le sta bloccando la gola impedendole di dire ancora altre stronzate. -La vuoi sapere una cosa?- le chiedo con un sorriso falso sul volto.

Annuisce, ancora senza fiato per il mio braccio che le impedisce di parlare.

-Impara a farti i cazzi tuoi.- lascio la presa ed entro nella stanza, chiudendomi la porta alle spalle.

***

11:58. Ho ancora due minuti di tranquillità e poi dovrò affrontare quella mandria di pazzi squilibrati durante il pranzo. Fisso un punto invisibile sul soffitto, anch'esso bianco.

11:59. Abbasso il volume e spengo l'Ipod bianco mezzo scarico.

12:00. E che possa la buona sorte essere sempre a MIO favore, penso.

Varco la soglia della cucina, bianca, inspirando nei polmoni quel buon profumino di lasagne appena sfornate. Allora qualcosa di utile lo sa fare quella donna.

-Ciao, Poppins- saluto la donna, nominata Mary.

La sua faccia scocciata da quel mio nomignolo riferisce la sua rabbia in ebollizione. -Emh.. Mary- mi correggo cercando non farmi sbattere fuori di casa a calci già il primo giorno.

La mora è già seduta a tavola, intenta a fissare il piatto molto interessante. Sorrido alla vista della sua nuova sciarpina che le copre il collo, probabilmente il segno rosso che le avrò lasciato. Mi siedo strusciando indelicatamente la sedia e fisso con sguardo compiaciuto la ragazza, aspettando che essa alzi lo sguardo. Niente. Non credevo di fare così paura. In quel momento arriva mio padre, incazzato come sempre, che mi sta fissando.

Abbasso lo sguardo. Lui è l'unico che sa mettermi in soggezione. Il pranzo è silenzioso, grazie agli dei.

La donna, che si è legata quei ricci biondi tinti del cavolo in una specie di coda smonca, chiede alla figlia come è andata la scuola questa settimana e io mi isolo completamente cercando di non recepire alcuna parola. Il mio sguardo si posa su mio padre, che osserva la figlia della sua fidanzata con un sorriso orgoglioso. Provo una fitta d'invidia verso quella troietta di una mora e un senso di tristezza mi pervade il corpo, consapevole dello sguardo che mio padre non mi ha mai più rivolto.

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