13. I miss you

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-Papà dice di non salire lì- disse la ragazzina bionda al fratellino.
-Uffi- sbruffò il bambino, più piccolo di qualche anno. I capelli ricci e scuri del bimbo gli ricardevano sugli occhi chiari e il sorriso smagliante che mostrava ai passanti toglieva il fiato. Adoravano prendere in giro le persone: i loro vestiti, le loro facce, le loro voci. Divenne un'abitudine uscire di casa e andare in quel piccolo parco isolato del quartiere. Passavano gli interi pomeriggi sulle altalene a chiacchierare della scuola, degli amici, dei primi amori. I fratelli parlavano poco del futuro, perché ciò comprendeva la loro separazione. Si volevano bene, e questo non sarebbe mai cambiato. Lo scricchiolare delle altalene spezzava quel silenzio nel quale erano noti a stare. A loro non servivano parole. A loro bastavano sguardi. Credevano che il sorriso dell'altro fosse il più bello, ma si sbagliavano. Entrambi i sorrisi erano i più belli del mondo.
La ragazzina cominciava a crescere, ma insieme al suo fratellino era sempre la solita e buffa bambina candida come la sua pelle bianca. Gli occhioni dei fratelli erano entrambi grandi e profondi, ereditati dai loro genitori. Alcuni bambini, soprattutto compagni di scuola, venivano a giocare nel parchetto; ma si accontentavano di altri giochi, perché le altalene erano dei due fratelli. Divenne anche un'abitudine coccolare i gattini neri che uscivano dalla loro tana per dirigersi dai ragazzini, che portavano loro sempre nuove prelibatezze. Un giorno uno dei gattini cadde nel fiume accanto al parco, a circa 10 metri dalle altalene. Il riccio provò a salvarlo, ma non ci fu nella da fare contro il destino. Le staccionate di legno che separavano la distesa di ghiaia grigia del parco dallo strapiombo che portava alla riva del fiume tormentato erano state di ostacolo quel giorno, e nonostante tutto tentò con il suo braccino a prendere il gattino nero; l'acqua lo risucchiò nell'abisso come un piccola pietrolina, inerme e troppo debole contro le onde del fiume. Piansero i fratelli quel giorno, come la gatta e i cuccioli, ed ogni anniversario del mese portavano un fiore in quel luogo maledetto, che portò la fine di una vita.
-Magari ha imparato a nuotare- aveva detto alla sorella qualche giorno dopo.
-I gatti non sanno nuotare- aveva notato lei.
-Nemmeno io, però non sono un gatto.-
-Ma tu puoi imparare- aveva risposto sorridente, scoccando al fratellino un bacio sulla guancia.
-Voglio imparare a nuotare- aveva interrotto il silenzio il fratello.
-Te lo insegnerò, un giorno.- aveva promesso la sorella.
Si facevano promesse in continuazione, promesse leali, vere.
Amavano dondolare su quelle altalene vecchie e arrugginite. Gareggiavano a chi andasse più veloce e come sempre la sorella faceva vincere il piccolo.
Ridevano e le loro risate insieme erano l'universo.
Tutto pareva trasparente, inutile, nei paraggi dei due fratelli. Un legame più forte di un nodo di corda, di una catena o di altri oggetti materiali. Un legame al di là del DNA e del sangue. Il loro era un legame di cuore, di anima, di amore fraterno.
Quel giorno le altalene furono occupate da altri bambini, così i fratelli decisero per un solo giorno di non salirci e di spostarsi accanto alla staccionata.
-Dai, scendi!- lo rimproverò la sorella.
Il riccio si era seduto sulla staccionata del gattino, così la vollero chiamare, e gli piaceva osservare le cose, le persone, da un'altra prospettiva. -Vieni anche tu!- propose alla sorella.
Lei arricciò il naso e si allontanò di qualche passo.
Il riccio osservò per qualche secondo il cespuglio alla sua destra e notò i gattini, cresciuti di qualche mese, e la loro mamma.
Durò pochi attimi.
Il bambino staccò la mano dalla staccionata di legno per salutare la famigliola di gattini e rimase in bilico su quell'asta di legno. Il vento era leggermente forte quel pomeriggio.
Pochi secondi.
Il bambino perse l'equilibrio e cercò dispetamente di afferrare la staccionata, invano.
Pochi instanti.
La ragazzina sentì l'urlo del fratello e si girò verso di lui. Corse per aiutarlo, ma fu troppo tardi. Come il gattino che cadde nel fiume, anche il riccio volle imparare a nuotare.
La ragazzina arrivò alla staccionata troppo tardi e l'ultimo grido del fratello che sentì fu il suo nome.
Beatrice.
Un urlo straziante il quale le riempirà i ricordi per sempre.
Lei si sporse verso lo strapiombo, ma del fratello non vi era traccia.
Lacrime amare iniziarono a solcarle gli zigomi e riuscì soltanto a gridare il nome della persona più importante della sua vita.
Thomas.

Le mie grida risuonano nelle pareti della camera. Mi stringo le gambe al petto e le circondo con le mie braccia. Dondolo. Avanti e indietro. Ogni singola notte devo affrontare lo stesso sogno, lo stesso incubo. I sensi di colpa si fanno sentire più forti e strazianti. Porto una mano sul cuore. Fa male e vorrei tanto togliere quello stupido organo dal mio petto. Sarei dovuta stargli accanto, avrei dovuto insistere e farlo scendere da quella maledetta staccionata. Ma mollai. Proprio come sto facendo ora. Mi alzo dal letto ed entro nel bagno bianco. Apro il cassetto di trucchi e trovo nella trousse ciò che cerco. Lametta. Una piccola ed insignificante lastra di metallo, ma una grande e spaventosa arma contro la vita.

Il sangue sgorga sul mio polso già rigato e sciacquo il tutto con l'acqua gelata. Mi piace il freddo, ma odio la neve e l'inverno.

Non mi preoccupo di essere beccata da mia madre. Da quel maledetto giorno dorme con i tappi per evitare di udire le mie grida disperate. Vorrei morire. Sarei dovuta morire io, non Thomas. Sto cercando il modo più semplice per farla finita!

Sarà strano ma io non fumo. Credo che fumare sia un'autodistruzione troppo lenta e poco dolorosa. Invece io ho bisogno del dolore che copra la mia tristezza. La mia mancanza di lui. Vorrei tanto che fosse qui, con quei suoi ricci che tanto amavo e quei occhioni verdi come i miei. Vorrei stringerlo forte e farmi perdonare da ciò che ho fatto, ma so che questo è impossibile. Nessuno mi perdonerà mai. Un esempio semplice potrebbe essere mio padre, che mi vorrebbe morta da quel giorno. Non posso non essere d'accordo con lui. Esco dal bagno e osservo il cielo leggermente rosso dall'alba. Tiro fuori dall'armadio un maglione e un paio di jeans e, dopo averli indossati, prendo le mie solite Converse. Ricontrollo il braccio e intravedo soltanto delle croste appena visibili. Mentre i nuovi tagli sono ancora delle piccole ferite aperte, le quali forse non chiuderò mai.

Prendo il cellulare e scrivo un messaggio.
"Ho bisogno di vederti. Ti prego. Rispondi."

Riposo il cellulare aspettando una risposta.
"Che succede? Stai male?"
"Fisicamente o moralmente?" sorrido ironica.
"Vieni qui."
"Grazie, Andrea"

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Spazio Autrice

Cortino? Forse.

È stato un capitolo perlopiù di passaggio, quindi il prossimo sarà molto più lungo.

Che dire, questo capitolo si commenta da solo!!

CrystalScar23

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