3. Capitolo II - Lux Mea

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"Dove c'è molta luce, l'ombra è più nera"
(Johann Wolfgang Goethe)





Sentiva freddo.
Nonostante la coltre di coperte che la sopraffacevano, Hermione tremava impercettibilmente, sentendo freddo fin nelle ossa; rannicchiata su se stessa in una strana posizione fetale, sembrava volersi proteggere da qualcosa di invisibile, mentre le mani strette a pugno e le unghie conficcate letteralmente nei palmi la tenevano sveglia - tra illusione e realtà - con il tenue dolore che si stava procurando da sola.
Gli occhi bruni erano socchiusi, le labbra martoriate schiuse e le gote rosse - colpa dei continui sfregamenti della manica del pigiama bianco che indossava - ancora bagnate di lacrime.
Non poteva piangere, ma continuava a farlo, nascosta come una ladra.
Aveva vergogna delle proprie lacrime - di quei sentimenti agoniosi. -
Il cuscino sotto il suo capo aveva preso la forma dei suoi denti - colpa di quei gemiti trattenuti, di quei singhiozzi zittiti - mentre i suoi capelli sembravano gli unici rimasti illesi dalla furia di quel pianto rabbioso, funesto, che l'aveva travolta all'improvviso, come una tempesta con tanto di uragano; lui, ancora una volta, aveva avuto il potere di strapparle quelle lacrime dal cuore, facendole vomitare l'anima insieme al dolore sordo che sentiva proprio al centro del petto, che a malapena si muoveva - consentendole di respirare - , un dolore che cercava di lacerarle lo sterno e farla a brandelli. Sette anni di pianti nascosti, ecco cosa le aveva regalato Ron.
Sette anni di risa e sorrisi arpionati nel cuore, ecco cosa le aveva regalato Ron.
Hermione si asciugò l'ennesima lacrima scivolata, senza nemmeno lasciarla trovare riposo tra le sue labbra, e scostò le coperte dal corpo infreddolito, spostando le tende rosse del letto a baldacchino e poggiando i piedi nudi sul pavimento gelido, rabbrividendo appena e risvegliandosi da quello stato catatonico in cui era caduta nemmeno mezz'ora prima, quando Ron le aveva dato la buonanotte.
La stanza era silenziosa, la luna brillava appena lì, tra quelle nuvole che la stringevano in un abbraccio caldo, che la cullavano come nessuno faceva con lei; le sue compagne di stanza dormivano e il loro respiro accompagnava quei pensieri spenti, che si susseguivano senza un filo logico, senza una ragione precisa.
Era strano: da quando aveva conosciuto Ron non aveva desiderato nient'altro che stargli accanto come donna, fidanzata e viverlo appieno, costruendosi una vita normale, amarlo semplicemente e farlo alla luce del sole, legandolo a sé indissolubilmente e non lasciarlo mai andare, quasi come se solo lei avesse voce in capitolo e lui fosse obbligato ad amarla.
Quando ci era finalmente riuscita... quando quel sogno si era coronato, infiammandole il cuore e l'anima, si erano lasciati. Lui l'aveva salutata come sempre, con un bacio sulla guancia e gli occhi insonnoliti, il sorriso genuino di chi non sa cosa sta succedendo realmente, ed Hermione era rimasta imbambolata, seduta lì, sulla poltrona dove era crollata al ritorno dell'incontro con Draco, completamente basita.
Con la mente era rimasta a quel bacio sulle labbra e l'abbraccio cullato capace di scacciare via gli incubi, e sarebbe stato pure normale, si erano lasciati in mattinata, ma niente era normale quando si trattava di lei.
Era stata al settimo cielo in quei mesi, sembrava che ogni suo obiettivo prefissato si fosse realizzato, ma era stata così sciocca da desiderare quello che agognavano tutte le ragazze della sua età: un principe azzurro.
Aveva fatto affidamento su Ron, riponendo i suoi sentimenti tra quelle grandi mani, senza pensare che lui avrebbe potuto chiuderle e schiacciare ogni cosa, annullandola.
Lui l'aveva ridotta in cenere e nemmeno se n'era reso conto.
Afferrò con mani tremanti il mantello della divisa, chiudendolo sul corpo coperto da quella che sembrava una soffice nuvola bianca e lasciò che il cappuccio celasse in parte lo scintillio del suo sguardo spento, ancora bagnato da quei pezzi d'anima persi su quel viso stanco.
Attenta a non fare il minimo rumore uscì dalla camerata, dirigendosi fuori dai dormitori femminili: la Sala Comune era vuota, come il suo cuore, e con passo calibrato, si avvicinò alla poltrona dove Ron era stato seduto prima, con i soliti occhi azzurri curiosi e un po' arrabbiati - colpa della sua sparizione improvvisa. -
Cosa credeva? Lei non faceva pazzie per amore.
A malapena credeva di poterlo fare ancora.
Strinse l'imbottitura tra le dita, mordendosi appena le labbra e chiedendosi se fosse stata meno rigida cosa sarebbe successo tra loro due. Si chiedeva se lei fosse stata più adolescente se lui avrebbe resistito. Sorrise, amara; Merlino, da quando era diventata così frivola?
Cambiare per un uomo, che le saltava in mente? Aveva chiuso la questione sotto l'ombra di quel salice piangente, perché ora si trovava a rimuginare sul suo carattere chiuso e scostante? Lei era fatta così, non poteva - non riusciva - a cambiare per un ragazzo che non l'amava per com'era, per quello che le batteva dentro.
Anche se lo desiderava come l'aria.
« Stupida » soffiò a bassa voce, riferendosi a se stessa.
Chiuse gli occhi, stringendoli fino ad abbagliarsi la vista.
Era così stupida.
Non riusciva ad amare come un'adolescente, ma soffriva come una bambina.
Cosa c'era di sbagliato in lei?
Stupida.
Uscì dal ritratto con passo lento, senza nemmeno illuminare la bacchetta per farsi strada tra quei pezzi di pietra e vita; i piedi nudi la portavano dove lei non aveva il coraggio di andare e non negò loro di condurla lontana dalla sua pazzia. Stava davvero impazzendo per amore?
« Stupida » ripeté con più convinzione, scuotendo il capo, avvilita.
No, non stava impazzendo per amore, semplicemente non aveva il coraggio di ammettere che aveva fallito.
Per la prima volta in vita sua, Hermione Granger, aveva miseramente fallito; aveva messo tutte le sue forze in qualcosa che si era rivelato un totale disastro. Aveva perso la partita contro l'amore e a malapena riusciva ad accettarlo. E, molto probabilmente, era quello il motivo per cui faceva fatica ad addentrarsi in territori che non conosceva: niente andava come voleva e lei odiava costruire castelli, per poi vederli crollare come sabbia.
La stessa sabbia che ora le stava scivolando dalle dita, scandendo i secondi, i minuti, le ore dove il dolore per quella sconfitta le bruciava più della scritta "Sanguesporco" sull'avambraccio.
« E' tardi » riconobbe quella voce ancor prima di vedere il suo volto.
Hermione si guardò attorno, accorgendosi solo in quel momento di trovarsi nel bagno di Mirtilla al terzo piano; sembrava che ora lei avesse bisogno di lui, non il contrario, e questa consapevolezza la fece tremare appena.
Il fantasma non c'era, probabilmente se ne stava malinconica in una delle tante tubature della scuola, a chiedersi il perché fosse toccato a lei un destino tanto crudele e lo sgocciolio dell'acqua nei lavandini era l'unico rumore che accarezzava il loro udito, andando a ritmo con il suo respiro impazzito.
« Sono un Caposcuola » rispose Hermione, come se quella fosse una buona scusa per trovarsi fuori dal proprio letto a quell'orario indecente.
« E poi... tu non dovresti trovarti a letto? Hai una gamba rotta se non te ne sei accorto! » sbuffò Hermione, avvicinandosi a Malfoy, seduto comodamente a gambe incrociate contro lo stesso cunicolo dove l'aveva trovato ferito, e tastando con i polpastrelli la gamba ferita. Lui non sobbalzò, era un buon segno, forse era già guarito. E, soprattutto, era un ottima scusa per cambiare abilmente discorso.
« Mi hai fatto bere così tanto Ossofast che mi hai stordito, Granger, a malapena la sento la gamba » disse Draco, guardandola scocciato.
« Che cosa?! » quasi urlò Hermione, tappandosi la bocca subito dopo, guardandolo sconvolta.
« Hai esagerato un po' tanto con le dosi » rincarò Draco, con una smorfia sulle labbra.
Hermione, solo in quel momento, si accorse che il labbro superiore di Malfoy era a forma di cuore; un piccolo neo sporcava il rosa delicato dell'arcata che univa quel delizioso labbro né troppo sottile né troppo carnoso, quasi vantandosi del suo colore scuro - in così netto contrasto con l'epidermide pallida e il rosa della bocca. -
Lui non si vergognava della sua impurezza, anzi, sembrava andarne fiero.
« Mi dispiace, ma, comunque, se non ti ha ucciso vuol dire che la dose non era letale. Fattore essenziale, direi » rispose Hermione, distogliendo lo sguardo dalle sue labbra e sorridendo sorniona.
« Volevi uccidermi, maledetta Mezzosangue?! » sbraitò Draco, guardandola male da sotto le lunga e angeliche ciglia bionde, simili ad aureole.
« Tu emani luce, eppure sei l'emblema dell'ombra, perché? » mormorò Hermione, zittendo - sorprendentemente - il Serpeverde.
Guardava i suoi capelli biondi, i suoi occhi grigi e la sua pelle diafana, chiedendosi come potesse qualcuno con un'anima così scura somigliare ad uno degli angeli più belli del paradiso.
« Tu hai i capelli scuri e gli occhi scuri, sei quella che più si avvicina al sinonimo di ombra, eppure sei l'emblema della luce. Questo che vuol dire? L'aspetto inganna sempre, Granger » rispose Draco, laconico. Hermione si inginocchiò di fronte a lui, inclinando docilmente il capo: Malfoy era davvero l'emblema dell'oscurità? Nutriva ancora tutti quei pregiudizi nei suoi confronti?
Quella guerra li aveva segnati fin nel profondo, cambiando radicalmente le loro sorti, i loro pensieri, le loro anime instabili; Malfoy, destinato ad una vita d'orrore, aveva deciso di afferrare il drago per il muso, cambiando le sue sorti e decidendo di combattere per sé, per un cuore che - molto probabilmente - nemmeno credeva di avere.
A lei, in realtà, non era mai importato così tanto quella guerra tra case: sempre tirata in causa, si sentiva ferita fin nel profondo, diversa - in un certo senso - ma non si era mai permessa di giudicare qualcuno in base al suo sangue... ma sempre in base alle sue scelte. E, in fondo, Draco aveva fatto la scelta giusta.
Aveva messo la sua famiglia, il suo modo di pensare e tradizioni che venivano mandate avanti da secoli da parte e solo per se stesso.
Hermione aveva sempre pensato che, ai seguaci di Lord Voldemort, non importasse molto della propria vita: chi potrebbe mai scegliere una vita di dannazioni per un briciolo di potere? Potere che poi veniva tolto insieme alla dignità servendo un essere così vile e losco, che per un passato tormentato aveva deciso di cambiare le sorti del Mondo Magico... a modo suo.
Un essere che non accettava se stesso, che volentieri si sarebbe strappato quel sangue nelle vene che l'avevano reso diverso, solo.
Ad Hermione non era mai importato, in realtà, del sangue che la rendeva differente, ed ora era stanca di mandare avanti quella perenne battaglia tra Serpeverde e Grifondoro, Purosangue e Mezzosangue, la guerra l'aveva già destabilizzata da tempo, oramai, e non aveva più la forza di ribattere, di combattere qualcosa che non poteva combattere.
Non aveva perdonato a Malfoy ogni insulto detto, ogni lacrima versata e ogni cattiveria fatta negli anni, ma nemmeno gliene faceva colpa; erano stati ragazzini, e Draco era così perso nell'ombra di suo padre - con pensieri che nemmeno gli appartenevano - da seguirlo ciecamente.
Solamente dopo si era reso conto a cosa andava incontro, a cosa gli toccava fare per mantenere alto il nome di famiglia... caduta nel fango anche grazie a quel padrone che Lucius tanto idolatrava.
In un certo senso Draco era così simile a Voldemort: desiderava solo un briciolo d'amore da parte di chi non era in grado di amare nel modo giusto.
Hermione si chiedeva se realmente avessero sotterrato l'ascia da guerra.
Lui l'aveva fatto? Il modo in cui le parlava era completamente indifferente, come se stesse parlando con qualcuno che conoscesse da tempo, ma con cui aveva parlato poche volte, in poche circostanze.
Lui la stava trattando come un suo pari, e questo le piaceva.
Tanto.
« Non avrai sangue puro nelle vene, Granger, ma hai più cervello - e magia - tu che tutta Hogwarts messa insieme. Non fraintendermi, questo l'ho sempre pensato - anche quando la convinzione che tu fossi inferiore era prepotente in me. - Forse era questo a farti odiare così tanto, tu, una misera Sanguesporco, che riusciva a superarmi in qualsiasi materia; era un affronto per il mio orgoglio, per mio padre - che credeva il sangue rendesse superiore a qualsiasi persona o cosa. - Mi sminuivi agli occhi dei miei genitori, ma ora che importa? Che importa? Cambiare così tanto per una persona vale la pena? Diventare qualcuno che non si è per essere amato... no, oramai non importa più. Che tu sia mezzosangue, che io sia Purosangue. Che tu sia la salvatrice, che io sia il Mangiamorte. Non mi importa più niente, oramai siamo nella stessa sorte, siamo finiti sullo stesso tragitto che il destino ha scritto per noi, ma non importa più. » mormorò Draco, sorridendo amaro.
Non importava più.
Probabilmente non importava più perché tutto quello non poteva essere cambiato, perché il destino si era già compiuto e loro si erano già feriti; ma, ora, il destino li aveva messi di nuovo sulla stessa strada, a guardarsi negli occhi, a compiangere i propri errori, a parlare dei propri difetti, a confessare i propri sbagli.
Il destino sapeva essere crudele, perché confessare le proprie debolezze al nemico era come pugnalarsi dritti al petto, eppure sembrava che entrambi ne avessero bisogno: in un certo senso sapevano che niente sarebbe uscito da lì, tutto era arpionato sulla loro pelle, inciso come un marchio sulla loro carne, e ora entrambi sapevano come lacerarsi, come far crollare l'altro, ma nessuno dei due lo avrebbe fatto.
Avrebbe significato perdere su tutti i fronti, rendere reali le loro paure, quei sussurri che invadevano la loro folle mente. Non importava più.
Hermione fissò il ragazzo negli occhi, alzando lentamente il braccio, fino a toccare la sua guancia con i polpastrelli. Draco sbatté confuso le palpebre, notando quanto il suo tocco fosse delicato.
Sentì le sue dita sulla sua pelle come fuoco, lo stava bruciando, ma nessun livido comparve sulla sua guancia.
Lei non era in grado di ferirlo, probabilmente non lo aveva mai fatto consapevolmente, ed era piacevole constatarlo con quel tocco che lo rendeva meno sporco.
Lei, così sporca a modo suo, lo rendeva meno sporco.
Stava impazzendo.
« Hai gli occhi rossi » sussurrò Draco, rompendo il silenzio che si era venuto a creare e guardando le palpebre gonfie e le pupille rosse della Granger, che distolse lo sguardo dal suo, aggrottando le sopracciglia.
Aveva pianto.
« La donnola ti ha ferito a tal punto da farti piangere? » domandò, mentre lei si sedeva a poca distanza da lui, con il capo appoggiato contro la porta di un bagno, le gambe al petto e il mento appoggiato teneramente sulle ginocchia.
« Credo che a ferirmi sia stato il perdere una cosa così importante » rispose Hermione, liberandosi in parte del peso che le opprimeva il cuore.
Non voleva parlarne con qualcuno che conosceva solo quella parte che adorava mostrare; il suo lato oscuro era un segreto custodito troppo gelosamente per mostrarlo a chi l'avrebbe giudicata senza andare in fondo alla questione e Malfoy lo sapeva - eccome se lo sapeva. -
Oramai lui aveva imparato a non giudicare, non dopo il male che l'aveva avvolto con così tanta enfasi dopo averlo fatto senza ragione, senza fondamenta, facendolo sprofondare nel buio più nero.
« L'orgoglio ti lacera fino a questo punto? » domandò Draco, guardandola sorridere in modo obliquo, strano, buio quasi quanto il suo, mai visibile, mai concreto.
« Vorrai dire, forse, perché il non vincere in qualcosa ti fa sentire così inferiore? » sibilò Hermione, stringendo i pugni e assottigliando gli occhi.
Occhi che bruciavano d'orgoglio e fierezza.
Stesso orgoglio che ora la stava spezzando in due.
« Perché quando non ti riesce qualcosa ti senti inferiore? E questo che dovresti domandarti, Granger » mormorò Draco, mentre lei continuava a sorridere in quel modo.
« Forse perché un bambino biondo mi ha fatto sentire in questo modo per il mio sangue, per un qualcosa che non era in mio potere. Da allora ho cercato di tenere sempre tutto sotto controllo, di non perdere mai più, perché le cose che non riuscivo a tenere a bada facevano molto più male ... ciò che non è in mio potere e che non posso cambiare, controllare, sono quelle cose che mi lacerano di più. » disse Hermione, rovesciando il capo all'indietro e guardandolo negli occhi.
« Quindi, in questo momento, ti senti inferiore perché una testa rossa ti ha lasciato e tu non hai potuto far nulla per fermarlo? » domandò Draco, scandalizzato, rivoltando la frittata a modo suo.
Hermione scoppiò a ridere, scuotendo il capo.
Meglio, molto meglio, quel sorriso le si addiceva molto di più.
La luce che emanava era più rassicurante dell'oscurità che credeva di racchiudere nel cuore.
Lei era la luce, a lui toccava essere lo specchio della sua ombra ancora per un po'.
Ma per ora non gli dispiaceva.
« Non ti credevo capace di fare battute, Malfoy » lo riprese Hermione, divertita, mentre il mantello scivolava appena dal suo corpo, mostrando il candore di quel pigiama, quasi dello stesso colore del suo corpo piccolo, quasi tenero.
« Sto imparando » rispose Draco, disegnando ghirigori fantasiosi con la bacchetta, che seguiva la scia della sua mano creando quello che i loro occhi e la loro mente volevano vedere.
« Perché? » ecco, era quella la domanda che le premeva di più.
Perché.
Draco aveva deciso di passare dalla parte dei buoni.
Perché?
Draco aveva deciso di cambiare, ma così lentamente da risultare quasi invisibile quello sforzo.
Perché?
La scusa della convenienza non funzionava: quando aveva detto no, Harry si fingeva morto tra le braccia di Hagrid, quindi le probabilità di perdere e morire erano confermate al cento percento.
« Perché ho una mente per pensare, due occhi per guardare e una bocca per parlare. Me ne sono reso conto troppo tardi, forse, ma ce li ho » rispose Draco, mentre la bacchetta disegnava un... cuore. Non quello che disegnano le ragazzine sul diario, ma un cuore con tanto di arterie e vene pulsanti, ed era bianco, e puro.
« E un cuore? Ce l'hai un cuore, Malfoy? » domandò Hermione, sfiorando il cuore sospeso a mezz'aria con le dita.
« Non ne sono sicuro » bisbigliò Draco, mentre il cuore si dissolveva tra quelle dita, come fumo, come se non fosse mai esistito.
Lei si inginocchiò di nuovo di fronte a lui, e a quella distanza sembrava quasi una bambina; i riccioli ricadevano come una cascata sulle sue spalle piccole, e, Draco, solo in quel momento si accorse che era dimagrita tantissimo dalla battaglia finale.
Lo sterno - che si intravedeva appena dal pigiama abbottonato rigidamente - quasi mostrava le ossa che lo tenevano.
Il viso era smunto, magro, ma in perfetta simmetria: gli occhi grandi erano bruni come i capelli e le sopracciglia folte non le appesantivano lo sguardo sorprendentemente luminoso.
Il naso era appena all'insù, e Draco lo ricordava arricciarsi - perennemente disgustato - in sua presenza. Ora era fermo, non faceva più quel gesto quasi involontario, che non avrebbe ammesso nemmeno sotto tortura, sotto sotto lo feriva; lui avrebbe dovuto provare disgusto in sua presenza, non il contrario.
Le labbra, notò, erano carnose e Malfoy si chiese quando i dentoni fossero spariti. Al quarto anno. Maledetta.
Hermione allungò nuovamente il braccio verso di lui, ma questa volta gli toccò il petto.
Bum, bum.
Tremò.
« Lo senti? » sussurrò Hermione, inclinando il capo.
Bum, bum.
Il suo cuore batteva furioso, ora, gorgogliando sorpreso.
« Lo senti? » disse di nuovo la Mezzosangue, sfiorando il petto coperto dal maglione con lo stemma dei Serpeverde. Bum, bum.
Socchiuse gli occhi.
« Sì » rispose Draco, ingoiando a vuoto nel vederla sorridere.
Era la prima volta che gli sorrideva in quel modo, illuminando tutto attorno a sé. Una fossetta comparve sulla sua guancia e gli occhi si strinsero fino a diventare due fessure.
Era bella.
La Granger era bella, ma non nel modo che volevano tutti. Non aveva nulla di particolare, ma erano i dettagli a far mancare il fiato, ed era strano come nessuno l'avesse mai notato.
A quella vicinanza Draco poteva vedere poche efelidi chiare sporcarle il nasino alla francese, accarezzando l'epidermide pallida, e i ricci attorcigliarsi tra di loro, come piccoli serpenti che si abbracciano in modo sensuale, intimo, ricadendo come una criniera disordinata, ma che le donava terribilmente. Sembravano creati apposta per lei, leonessa pronta a sbranare.
Gli occhi erano fin troppo grandi sul suo viso, quasi stonavano, ma si accorse che era una meravigliosa illusione creata dalle ciglia lunghe, scure, come pizzo aggrovigliato che creava ombre sulle sue guance scarne. Ora che non era stanca, poi, poteva vederli spalancati e osservare il colore dei suoi occhi che, a metri di distanza, non aveva mai notato.
Erano marrone scuro, niente di speciale, ma infondevano un calore che Draco, dentro, non aveva mai sentito.
Erano pozzi senza fine, come un vortice in cui era difficile risalire. Ma, accarezzando l'iride, qualche pagliuzza ambrata li rischiarava con dolcezza, e lì avvenne la contraddizione: quegli occhi erano un tunnel senza uscita, ma al contempo la stessa luce che portava alla salvezza.
Abbassando lo sguardo notò che il labbro superiore era molto più carnoso di quello inferiore e, anche se sorrideva sempre, sembrava donarle un'espressione perennemente imbronciata.
No, nel complesso non aveva niente di particolare, ma a quella vicinanza era bella da far mancare il fiato.
« Allora ce l'hai un cuore » mormorò lei, spezzando il silenzio che si era venuto a creare tra loro due.
« E batte forte » finì Hermione, mentre una scarica elettrica gli attraversava la spina dorsale.
Velocemente, sovrastando ogni rumore.
Violentemente, quasi rompendogli le ossa.
Il suo cuore, ora, quasi rischiava di rompere il legno che lo circondava, e, per un attimo, sperò che smettesse di battere per non renderlo nudo ai suoi occhi.

Io sono di legnoDove le storie prendono vita. Scoprilo ora