18. Effetto placebo

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18. EFFETTO PLACEBO



















"Quando siamo insieme sento
gallerie d'arte nelle vene."
-Stefano Colucci




















15 agosto, 2019


È noto che qualsiasi rimedio farmacologico, scientificamente dimostrato, abbia due effetti terapeutici: un effetto farmacologico vero e proprio, legato al principio attivo contenuto nel farmaco, e un effetto placebo, legato al fatto che l'idea di assumere una sostanza con potere curativo abbia di per sé un potere curativo. I nostri pensieri sono così potenti da dare esistenza alle cose, e l'effetto placebo altro non è che la prova scientifica della capacità che abbiamo di guarire noi stessi.

Odiava gli ospedali, li aveva sempre odiati, sin da bambina

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Odiava gli ospedali, li aveva sempre odiati, sin da bambina. Luoghi lugubri avvolti da un'atmosfera asettica che stordisce la mente e paralizza il cuore. Tutto degli ospedali la faceva rabbrividire: quell'odore penetrante che gela il sangue nelle vene ogni volta che si oltrepassa la porta principale, l'odore di disinfettante e medicinali, l'odore di morte e decadimento, i rumori metallici che risuonano nei corridoi, assieme al passo svelto dei medici, le luci neon, le pareti verdine e il dispiacere scritto in faccia alle infermiere.

Quegli sguardi carichi di verità improferibili, che non vogliono sfondare i cancelli della parola, che esitano a sgorgare dalle labbra, poiché il dolore che recano sarebbe capace di piegare e spezzare anche la più baliosa delle anime, di frantumarla in mille brandelli, in una miriade di cocci taglienti. Tutto la faceva rabbrividire. Ovunque, negli ospedali, il dolore cala, incombe e avvolge come un pesante drappo funereo.

Proprio per questo durante quei giorni i suoi occhi finivano sempre per fissarsi sulla figura inerme di Zale. Lui era l'unica fonte di luce, l'unica stella velata, in quello sconfinato buco nero. Saperlo vivo la rendeva serena. Saperlo dormiente, in bilico tra un mondo e un altro, tra l'aldilà e l'aldiquà, le toccava le tempie. L'attesa era snervante, ma non avrebbe mai perso la speranza.

Il dolce volto di Zale era immobile, lievemente tumido per i liquidi che gli pompavano dentro e che lo tenevano in vita. I riccioli dorati erano sparsi sulla federa del cuscino. Sotto gli occhi chiusi aveva profondi solchi scuri, in contrasto con la pelle diafana delle guance. Lo stato vegetativo gli aveva fatto perdere peso; era scarno, glabro e pallido come un fantasma. Era dimagrito, almeno più di cinque chili, tanto che gli si vedevano le ossa dello sterno, le clavicole sporgevano evidenti come ali di un corvo reale.

Il camice rivelava la linea elegante e decisa di un collo niveo, e un paio di braccia solcate da vene collassate. In bocca aveva un tubicino di plastica collegato a un respiratore artificiale, il rumore ricordava lo scrosciare delle onde del mare, che violente si infrangono contro le rocce della riva. Il suo torace si alzava e abbassava ritmicamente. Erano passati dieci giorni, eppure Kendra non si era ancora abituata all'angosciante ronzio dei monitor che misuravano le sue residue funzioni vitali.

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