Capitolo 2

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Finii l'università con la consapevolezza di non aver fatto la cosa giusta. Già dopo i primi due esami avevo capito come quella materia stonasse non poco con le vere passioni di cui Gabriele Olbrani (il sottoscritto, anche se tutti mi chiamano semplicemente Ga) intendeva riempirsi la vita. E fin qui poco male, avevano sostenuto i miei genitori con convinzione. Avrei pur sempre potuto relegare le mie passioni in fondo a un cassetto, che avrei aperto con slancio nei giorni non lavorativi, con il moto d'animo di chi attende quel momento dopo giorni e giorni passati tra atti giudiziari e altre scartoffie da noiosissimo ufficio legale, seccature quotidiane che avrebbero pur sempre sovvenzionato ciò che veramente mi dava piacere, e verso le quali sarebbe stato riguardoso riservare la stessa deferenza che si ha verso chi paga i conti di casa.

Una volta terminati gli studi però, il punto non era stato convincere me stesso di quanto il mestiere per cui mi ero preparato e che non mi entusiasmava affatto potesse adattarsi alle mie autentiche passioni, quanto piuttosto convincere quel mestiere di quanto potessi io adattarmi a esso. Perché se già al secondo colloquio avevo capito che quella non era una carriera a me congeniale, con me l'aveva capito soprattutto il mio intervistatore. Gli erano state forse d'aiuto le espressioni di vivido entusiasmo che mi erano balenate in viso non appena mi aveva esposto le brillanti prospettive di carriera a cui avrei avuto accesso in un prestigioso studio legale come il suo. Certo, se avessi accettato di scordarmi della luce naturale del sole e dell'aria fresca per una decina d'anni e fossi stato chino su libri polverosi, forse verso i quarant'anni, se fossi stato bravo, avrei fatto soldi a palate. Già, se fossi stato bravo. E se non fossi stato bravo invece, che ne sarebbe stato di me? Se fossi stato diciamo così così, che cosa ne avrei guadagnato? A parte una seria lombosciatalgia, intendo. E poco importava che fosse altamente improbabile che nei patinati studi legali come quelli che avevo visto circolasse anche la minima particella di polvere. Io non mi sentivo adatto a quella vita. Punto e basta. Chiaro e cristallino. Non era un mestiere per cui ero pronto a sacrifici. Tanto meno mi sentito un cavallino rampante pronto a saltare alla gola dei colleghi e sciorinare la mia personale e originale teoria sulla responsabilità aquiliana, pur di fare bella impressione sul capo. E intendiamoci, ciò non per un'avversione alla competitività nei confronti del prossimo o perché fossi d'animo buono, quanto per contro a causa di un'innata incapacità ad accettare le mezze misure. Il bicchiere è vuoto o è pieno, il grigio è bianco o è nero, una persona mi piace o mi sta decisamente indigesta, un lavoro è una passione o non fa per me. Scendere a compromessi è del tutto inutile. Rifiutare quella professione non era stata perciò una scelta, ma un dovere morale, una necessità a cui non potevo sottrarmi. Dunque — un bell'avverbio senza mezze misure, carico di senso di causa effetto come nessun altro — dunque, non potei intraprendere il mestiere di avvocato, e per la prima volta dopo il mio dodicesimo compleanno, dovetti riconsiderare il mio avvenire lavorativo. Non so ben perché, ma a quell'età avevo deciso che sarei diventato un avvocato. O meglio, lo saprei se volessi ammettere che a decidere del mio futuro era stata una mezza dozzina di film ben riusciti sulla professione forense. Sarei diventato un avvocato famoso, un principe del foro, una persona con la legge sulla punta della lingua, abile a rischiarare la vita propria e degli altri dal groviglio di torti e ragioni. Una persona che se la cava in ogni situazione, dalla spiccata personalità, che gode della stima e della considerazione degli altri. Insomma non una persona banale che fa cose banali, non uno qualunque — un aggettivo che ho sempre mal sopportato — ma un tipo sveglio a cui gli altri si affidano per risolvere i loro problemi. E così a dodici anni mi inventai un progetto di vita che mi allettava ma del tutto superficiale, che feci sedimentare per molti anni fino a farlo diventare scontato. A chiunque mi chiedesse cosa volessi fare da grande, io rispondevo deciso 'l'avvocato!'. Certo, modificai qua e là il progetto, lo adattai ai — pochi — mutamenti di personalità che l'adolescenza prima e l'età adulta poi portarono con sé. E così, da principe del foro mi declassai a libero professionista, dove con una altrettanto libera interpretazione, associavo al termine 'libero' il significato di 'colui che lavora quando e quanto meglio crede poiché privo di un capo che lo controlla a cui dover elemosinare meritati giorni di vacanza'. Ma a dodici anni non avevo ancora imparato il significato dell'avverbio dunque e non avevo realizzato che il mio piano avrebbe richiesto di passare lunghi anni — i miei migliori lunghi anni — ingobbito su della letteratura giuridica di dubbio diletto. Così quando in seguito e senza fretta approdai al termine degli studi e dovetti iniziare a cercarmi un lavoro, senza troppe remore confessai a me stesso e ai miei familiari che io di andare a rinchiudermi in un ufficio di avvocati non ci pensavo proprio! Dietro le incessanti insistenze del capofamiglia, feci un tentativo di un paio di mesi, e le mie certezze trovarono una conferma. Mi sentii a disagio a colloquiare con colleghi ben più appassionati alla legge — e ben più preparati — di quanto fossi io, e non mi divertii affatto ad arrovellarmi il cervello alla ricerca di un articolo di legge che proprio non riuscivo a ricordarmi, tanto meno mi metteva di buon umore frequentare quelle logore aule di giustizia con cui il trascorrere del tempo era stato particolarmente ingiusto. E l'idea di passare anni di gavetta dove la parola 'stipendio' non era contemplata a vantaggio delle due meno impegnative 'rimborso spese' mi seccava alquanto. Così, dopo due soli mesi di praticantato, gettai la spugna. Mi sarei cercato un lavoro più adatto a me. Ma con calma. Nel frattempo non avrei di sicuro ripiegato su un lavoro mediocre o ordinario, ma avrei aspettato che mi fosse venuta l'idea giusta, quella che mi avrebbe fatto trovare un lavoro che desse libero sfogo alle mie vere aspirazioni nella vita, vivere libero come un fringuello armato di quella curiosità per il mondo che mi faceva palpitare il cuore forte dall'eccitazione. Cercai perciò di far capire a mio padre che di iniziare a lavorare non c'era nessuna fretta, che non aveva senso accettare solo per vil denaro la prima proposta che mi si fosse presentata. D'altronde dei soldi non mi importava poi molto. Non ero sposato, non avevo bocche da sfamare, tanto meno avevo debiti da ripianare. Avevo già anzi messo da parte un discreto gruzzoletto, che negli anni i miei genitori avevano solertemente contribuito a formare e che soprattutto la generosa zia Olivia — una vecchia zia di mio padre senza rampolli che mi aveva inaspettatamente preso in simpatia — aveva rimpinguato con lodevole continuità. E così, giunto alla soglia dell'età adulta, possedevo già uno spazioso appartamento tutto per me, una moto con cui sentire il vento fra i capelli, e l'unica cosa che mi mancava per sentirmi appagato era solo una bell'auto d'epoca. In quelle circostanze, mi sembrava ovvio che la sola cosa sensata da fare fosse aspettare finché avessi trovato la mia strada. Non altrettanto ovvio sembrò invece a mio padre. 'Noi Olbrani non siamo mai stati degli scansafatiche e non sarai certo tu il primo!' mi urlava in faccia quando scambiavamo amabilmente due chiacchiere su ciò che avrei voluto fare nella vita. Che più o meno iniziava con 'non' e terminava con 'lavorare'. Se per lavorare si intendeva trascorrere trent'anni delle propria e unica vita recluso tra le quattro mura di un ufficio. Non che intendessi passare tutta la vita a grattarmi la pancia, ben inteso. Mi sarei prodigato volentieri a viaggiare senza sosta per il mondo, conoscere culture nuove e incontrare persone di cui non sospettavo l'esistenza con cui scambiare libere conversazioni sul più e meno. L'avrei fatto molto volentieri. Perché, se qualcuno avesse dovuto rompere la tradizione di famiglia, ci avrei tanto tenuto a essere io il primo.

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