Capitolo 1.

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YURI

Non potevo arrivare in ritardo oggi. Proprio no.

"NOTIZIA LAMPO: il famoso pattinatore russo, Victor Nikiforov, medaglia d'oro all'ultimo Grand Prix, ha rilasciato quella che molto probabilmente è stata la sua ultima intervista: incapace di seguire un filo logico nel discorso che aveva intavolato con i giornalisti, è stato portano via a braccetto dal suo ormai ex-allenatore Yakov Feltsman, che non ha voluto lasciare dichiarazioni. Il ritiro del grande pattinatore dal palcoscenico dei ghiacci sembra ormai confermato. Ma cosa sarà mai che, da più di un anno, lo ha privato del suo rinomato carisma facendolo piombare in quello che all'apparenza è molto simile ad uno stato di coma mentale?"

Calai la mano sul telecomando con un tonfo spengendo la televisione. Non avevo nè voglia nè tempo per stare ad ascoltare stupide dicerie che catalogavano il mio idolo come il più aberrante dei malati mentali.

Ricordavo Victor: erano già passati un paio di anni ma eccome se lo ricordavo.

Fin da piccolo avevo sempre avuto un'innata passione per il pattinaggio. E come tanti altri giovani del mondo, mi ero attaccato all'immagine di Victor, senza sentirmi mai sazio degli spettacoli che era in grado di creare mettendo insieme un pubblico, il freddo e un paio di pattini. Per questo, quando avevo avuto l'occasione di incontrarlo, ero stato a malapena capace di salutare, chiedere un autografo, una foto insieme e poi lasciarlo andare.

Era inimmaginabile quanto fosse impegnata una persona famosa come lo era lui.

Io non mi ero mai impegnato seriamente nella mia carriera di pattinatore, preferendo di gran lunga dedicarmi agli studi che all'epoca stavo per portare a termine; pattinare era una svago, un hobby che utilizzavo per liberare la mente e divertirmi un po', ed era stato solo grazie alla mia allenatrice, nonché fidata amica, che ero riuscito a fare comunque un po' di strada.

Nel mio paese mi ero fatto un nome, ma niente di neanche lontanamente paragonabile alla celebrità raggiunta da Victor Nikiforov.

Poco dopo aver incontrato Victor però, mi ero convinto a mettere da parte i pattini, per concentrarmi sull'ultimo paio di esami che un annetto e mezzo fa mi avevano reso dottore in Psicologia e Scienza cognitiva. Un risultato che mi aveva riempito d'orgoglio.

Fino a quando il dirigente della clinica alla quale mi avevano assegnato non aveva sotterrato il mio giovanile entusiasmo sotto una pila di scartoffie macchiate di caffè, assegnandomi il compito di rimettere in ordine l'archivio della clinica.

"Se mi vuole piegare con qualche carta dovrà impegnarsi molto di più", mi ero detto.

E oggi finalmente i miei sforzi sembravano essere stati premiati.

Cercai di inghiottire il biscotto, che mi si stava impastando in bocca, con un sorso di latte. Avrei dovuto chiedere a mia madre di smetterla di mandarmi una scatola di biscotti fatti in casa ogni settimana, pregandola in ginocchio se fosse stato necessario. I biscotti erano l'unica cosa che non riusciva a cucinare decentemente; per il resto, da quando avevo finito l'università, ero stato salvato sempre più spesso da alcuni dei suoi manicaretti, che mi faceva arrivare puntualmente. Anche se ad essere sincero, forse avrei dovuto dirle seriamente di piantarla di accudirmi ancora come un bambino, quando invece ormai vivevo da solo e avevo un lavoro.

O almeno un quasi lavoro...

E se oggi fossi arrivato tardi, sicuramente potevo scordarmelo.

Riuscii ad arrivare alla porta di casa inciampando e facendomi quasi scivolare gli occhiali dal naso. Recuperai al volo le chiavi sul mobilino dell'ingresso e mi lanciai per le scale.

Pazzo di teDove le storie prendono vita. Scoprilo ora