Capitolo tredici (pt.1)

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AMELIA

Finalmente, dopo lunghe peregrinazioni, giungemmo in un ampio parcheggio, non eccessivamente affollato, antistante a un grande e freddo edificio bianco in netto contrasto con l'arancione dei campi fioriti lì intorno; scesi dalla Ford, ci dirigemmo verso l'ingresso. Il mio cuore cominciò a galoppare, all'idea di ciò che mi sarei ritrovata davanti, e un senso di nausea si impossessò completamente di me. Il vento trasportava il forte profumo dei cempasúchil di cui abbondavano i prati circostanti: l'odore dei tipici fiori del "Dia de los muertos" mi si insinuava nelle narici come presagio di morte.

Più salivo le scale e più mi sentivo sprofondare. Primo gradino. Gambe tremanti. Secondo gradino. Stomaco contorto. Terzo gradino. Cuore ansimante.

Una mano si intrecciò saldamente alla mia: mi girai in direzione di essa e mi accorsi che era Lucas. Mi stava fissando intensamente e con calore; mi guardava negli occhi con apprensione e una velata nota di qualcosa che percepii come preoccupazione. Strinsi forte la sua mano, in cerca d un appiglio, e varcai la soglia dell'atrio.

L'interno dell'edificio era tanto freddo e asettico quanto la facciata, se non di più; la candeggina sovrastava qualunque altro odore presente, facendomi pizzicare fastidiosamente il naso. I nostri passi risuonavano per l'atrio, incuranti della mia preoccupazione e del mio desiderio di fuggire e scomparire per non farmi notare dalle uniche persone presenti: uomini e donne in anonime divise blu. Non tutti potevano accedere a quest'edificio, ci andavano permessi speciali, permessi che noi, grazie a Ronnie, non avevamo faticato ad ottenere: ecco perché eravamo probabilmente gli unici visitatori in quei quattro enormi piani.

Se mi fossi addentrata sola in quel labirinto di corridoi sicuramente non sarei giunta da nessuna parte: orientarsi era difficilissimo in quanto tutte le pareti erano perfettamente bianche, le une identiche alle altre, e le indicazioni a lato delle porte erano scritte in spagnolo, lingua i cui vocaboli di mia conoscenza si contavano sulle dita di un mano.

Lucas mi cinse le spalle con un braccio, in attesa che Veronica finisse di parlare con un'addetta di quello che doveva sicuramente essere il centralino. Stretta a lui, potevo sentire il suo respiro caldo solleticarmi il collo; era più premuroso del solito: nonostante fosse sempre stato un amico presente, qualcuno su cui contare nel momento del bisogno, quella volta sembrava piuttosto incline alle dimostrazioni di affetto, azioni che aveva sempre evitato e definito "per femminucce false".

Prima che me ne rendessi conto stavamo svoltando in un corridoio avvolto nella penombra, guidati dall'eco dei tacchi di Ronnie che risuonavano sicuri per tutti i corridoi e le stanze intorno. Ci fermammo davanti a una porta costituita per circa la metà di vetro; se Ronnie non fosse stata davanti a me, avrei potuto facilmente vedere cosa vi si nascondeva. Veronica si girò verso di me e in quel momento mi sentii addosso il peso sia del suo sguardo sia di quello di Lucas.

"Sei pronta?" Mi domandò Lucas, tenendomi ancorata al presente sia con la fermezza della sua mano intrecciata alla mia sia con la profondità dei suoi occhi che penetravano intensamente nei miei.

"Non credo che lo sarò mai abbastanza, ma devo farlo. Devo affrontare la realtà." Sospirai abbassando gli occhi: quel senso di colpevolezza che mi pervadeva non mi permise di sostenere lo sguardo.

"Vuoi che ti accompagni dentro?" Mi chiese lui, cercando il mio sguardo.

Io sollevai gli occhi dal pavimento e incontrai i suoi, che parevano pullulare di comprensione, e sussurrai un flebile "Sì". Lo guardai intensamente, pietrificata e in cerca di un appiglio, e poi gli gettai le braccia al collo stringendolo in un abbraccio.

Veronica si scostò dalla porta per farci entrare, il viso indecifrabile per chi non la conosceva, ma per me dietro a quell'espressione dura in quel momento si celava preoccupazione.

Ero pronta, forse.

Camminai, passo dopo passo, avvolta da un silenzio assordante: il mio cuore, sbattendo violentemente contro la gabbia toracica mi stava bucando i timpani.
Entrata nella stanza, acuti beep di monitor si mischiarono alla maratona del mio cuore, creando un trambusto ancora più fastidioso: era un crescendo di suoni che non riuscivo proprio a sopportare in quel momento.

Quando, al centro della stanza, vidi quel letto, sentii piombare il silenzio e mi arrestai sui miei passi, incapace di proseguire dinnanzi all'orrore che avevo davanti: numerosi tubi e cavi serpeggiavano lungo il suo corpo, avvolgendolo come pronti a stritolarlo.

A quella visione mi si gelò il sangue nelle vene e, in quel momento, l'unico straccio di calore che riuscivo a percepire era la mano di Lucas costantemente stretta alla mia. Non mi aveva lasciata nemmeno un secondo.

"È in coma farmacologico" disse lui piano, come se quelle poche parole avessero potuto pugnalarmi. Di fatto lo fecero.

Lì, immobile, giaceva la causa dei miei mali.
Lì, inerme, giaceva la vittima di cui ero immemore.
Lì, giaceva Julian.

Ciao belli! Scusate la super prolungata assenza... Spero di avervi "ripagato" con questa grande rivelazione! Fatemi sapere cosa ne pensate🌼💛

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