3. Passare inosservata

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"Il sonno della ragione genera mostri."

[Francisco Goya]

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Poche cose erano certe, al Salinger. Una di queste, tanto inconfutabile da risultare una sorta di regola non scritta, era che chiunque, almeno una volta, dovesse perdersi nell'infinito labirinto di corridoi della scuola.  Smarrirsi tra la folla di liceali fuori dalle aule era una tappa obbligatoria per ogni studente, anche quelli con il senso dell'orientamento più affidabile, al punto tale che i costanti ritardi a lezione erano diventati ingestibili per i professori. 

Era stata di Sadie, al suo secondo anno, l'idea di appendere dei segnali di indicazione alle porte delle classi e, una volta eletta rappresentante degli studenti, di elaborare un'applicazione che indicasse a ragazzi e docenti il percorso più veloce per raggiungere le diverse aule, tenendo conto del flusso di persone nei corridoi e delle eventuali aree di scuola chiuse per ristrutturazione.

Grazie a mia sorella, nell'arco di pochi giorni la percentuale di alunni arrivati in orario a lezione aumentò in maniera esponenziale, e nelle singole classi si poté percepire un rapporto sempre meno teso tra studenti e professori.

Tornando a noi, la campanella avrebbe dovuto suonare a minuti. Il cortile della scuola iniziava a riempirsi sempre più di ragazzi dai quattordici ai diciotto anni di ogni etnia, nazionalità e religione. La totale assenza di discriminazioni a livello sociale era uno dei punti cardine dell'istituto, il che sarebbe stato molto onorevole, se tale concetto non avesse celato una verità non altrettanto nobile: l'unica cosa che importava, per entrare in quella scuola, erano i soldi. 

Io vedevo tutto dall'alto, dalla finestra della biblioteca al secondo piano. Fuori, i colori del Salinger prendevano il sopravvento sul grigio dell'asfalto: regnavano il verde, il bianco e il nero, come la giacca, la camicia e i pantaloni della divisa. Pantaloni per i ragazzi, e gonna per le ragazze, per essere precisi.

E per essere ancora più precisi, data la temperatura parecchio alta all'esterno, la maggior parte dei maschi stava indossando i bermuda eleganti dell'uniforme estiva. Anche le giacche, infatti, erano meno pesanti di quelle utilizzate da novembre a marzo, e durante le lezioni avevamo il permesso di toglierle.

La campanella suonò, e gli studenti entrarono a gruppi nella struttura da ingressi scaglionati, dove poi vennero sottoposti ai controlli con lo scanner, per essere sicuri che nessun oggetto potenzialmente pericoloso venisse immesso tra le mura della scuola.

Come detto in precedenza, io ero già in biblioteca. Il vicepreside, all'inizio dell'anno, aveva avuto la brillante idea di piazzare tutte le riunioni riguardanti il programma di tutoraggio prima delle lezioni.

Ormai non era più un problema mio, comunque. Era bastato inventarsi qualche scusa più o meno plausibile, qualche impegno che non poteva assolutamente essere rimandato, ed ecco fatto! Il mio nome era sparito dalla lista dei possibili tutor della scuola estiva.

Andai in classe. Mi attendeva il meraviglioso e per niente ripetitivo test di educazione fisica sugli infortuni nello sport. Il nostro professore, promessa del lacrosse durante i suoi anni da liceale, aveva dovuto ritirarsi a seguito di una brutta frattura alla tibia riportata durante una partita e, dopo più di trent'anni, ancora non era riuscito a metabolizzare la cosa. Probabilmente era per questo che quasi ogni settimana ci sottoponeva allo stesso, snervante, questionario sugli infortuni, riuscendo chissà come a dare puntualmente delle F.

Negli anni avevo perfezionato una tecnica pressoché infallibile per limitare al minimo il dialogo con i miei compagni, che contavano sulla mia bontà d'animo per suggerirgli le risposte corrette durante le verifiche.

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