Capitolo 6

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Jackson era appostato sul balcone di casa. Osservava il paesaggio, rendendosi conto di quanto fosse spettacolare la vista su Myrtle Point: montagne, verde e tanta tranquillità. Tutto quello che ricercava da quell'esperienza, da quel nuovo inizio. A quel punto, abbassò lo sguardo e lo vide. Una figura che correva e si avvicinava alla via di casa sua. Si voltò, afferrò le chiavi e si precipitò fuori casa. Percorse gli scalini a due a due, per accelerare il passo il più possibile, poi aprì il portone, ansimando per la corsa. Dylan Dawson sbucò dall'angolo della strada, dirigendosi verso di lui, così Jackson si impose di calmare il proprio respiro. Si era attrezzato per riuscire a intercettarlo: aveva dei pantaloncini dell'adidas e una maglietta a maniche corte che metteva in mostra i suoi bicipiti ben sviluppati. Eh sì, perché Dylan Dawson non era l'unico con dei muscoli a Myrtle Point. Avanzò di qualche passo e gli sorrise.
«Buongiorno» esordì quindi. Il coach si fermò, guardandolo con un'espressione interrogativa.
«Buongiorno» rispose automaticamente, squadrandolo da testa a piedi.
«Posso unirmi alla corsa?» domandò Jackson. L'altro spostò lo sguardo sul suo volto e incastonò le sue pupille azzurre in quelle di ghiaccio del primo.
«Ero convinto di non starti simpatico» commentò il biondo.
«E in effetti era così, ma molte cose sono cambiate. Su, insomma, è solo una corsa, non ti sto certo proponendo di sposarmi!» lo spronò. Dylan annuì, sorridendogli e avvicinandosi repentinamente. I loro volti erano a pochi centimetri di distanza l'uno dall'altro, e Jackson rabbrividì istantaneamente. Poteva sentire il fiato del coach sul proprio viso, poteva osservare le goccioline di sudore depositate sulla sua fronte liscia.
«Sì, lo voglio» sussurrò enigmaticamente, poi gli diede una pacca sulla spalla e corse via, accelerando il passo. Maledizione, pensò Jackson, imitandolo e cercando di stargli dietro. Lo seguì per diversi metri, prima che l'altro rallentasse e gli permettesse di raggiungerlo.
«Guarda che se muoio, mi avrai sulla coscienza» gli fece notare, ansimando, il moro. Dylan lo guardò divertito.
«Andiamo, si vede che sei allenato, è solo una corsetta» ribatté. Jackson annuì, indicando una strada sulla sinistra.
«Il percorso, però, lo scelgo io» decise. L'altro ci ragionò su qualche secondo, poi acconsentì.
«Chissà in cosa mi sto cacciando» disse infine, seguendolo. Jackson non poté trattenere una risata. Era vero: non ne aveva assolutamente idea. Ma il suo piano avrebbe funzionato, quanto era vero che si chiamava Jackson Hunt. Così, percorsero diversi metri in salita, sino a raggiungere una parte di Myrtle Point che era molto isolata rispetto al resto della città. Il moro aveva previsto tutto nei minimi dettagli, così seguì esattamente la strada che aveva fatto il giorno precedente e quello prima ancora. Passarono diversi minuti, quando poi Jackson rallentò e si arrestò nei pressi di una piccola radura. Un tronco d'albero era caduto e veniva utilizzato da panchina, mentre diversi cespugli circondavano la zona e la rendevano molto fresca e ombrosa.
«Pausa» propose a quel punto il moro. L'altro annuì, sedendosi sul legno e stendendo la schiena.
«Cos'è questo posto?» chiese, guardando il cielo. Jackson si prese qualche secondo per rispondere, perché era distratto dal suo corpo depositato in quel modo sul tronco. Era fottutamente attraente e, per un momento, aveva sentito quasi l'impulso di gettarglisi addosso.
«Un posto carino che ho sperimentato nei giorni scorsi» spiegò brevemente, sedendosi accanto a lui. A quel punto, il biondo alzò la schiena e gli sorrise.
«Facevi sport? Sei abbastanza atletico, anche se si vede che non ti alleni giornalmente» si informò. Jackson annuì, distogliendo lo sguardo dai suoi bellissimi occhi.
«Ho avuto qualche anno buono da wide receiver» ammise. Dylan spalancò gli occhi.
«Pensavo che le tue conoscenze sul football fossero per via di partite viste. Non mi avevi detto di averci giocato» fece poi, seriamente sorpreso dalla rivelazione dell'altro.
«Certo, perché non ce n'era motivo. Non volevo essere uno di quei genitori che vanno dal coach millantando di saperne perché "ah ma io ci ho giocato eh". Semplicemente, volevo dessi una possibilità a Thomas» chiarì quindi.
«Volevi?» disse Dylan.
«Voglio» si corresse Jackson, estraendo il cellulare dalla tasca. Era il momento della fase due del suo piano.
«Non credo ci sia campo qui» gli fece notare il coach. L'altro sorrise.
«Non mi serve il campo. Volevo farti vedere una cosa, ma ti giuro che non sono video di Thomas» confessò, avvicinandogli il cellulare. L'altro lo afferrò e iniziò a riprodurre il video della finale dei nazionali giovanili del 2011. Aveva montato qualche spezzone con le azioni principali di Dylan, oltre a qualche sua corsa, per fargli capire che anche lui era presente a quella partita. Il biondo spalancò gli occhi e un sorriso comparve sul suo volto. Guardò il video in silenzio, con gli occhi lucidi per l'emozione, poi bloccò il dispositivo e lo ripassò all'altro.
«Io... dove hai trovato questa roba?» cercò di capire, con la voce rotta dalle sensazioni che, vedere quegli spezzoni, gli aveva provocato.
«Io ero lì. Ero uno dei wide receiver di Manor» spiegò. Dylan scosse il capo, osservandolo dritto nelle pupille di ghiaccio.
«Assurdo. Cazzo, giocavi per Manor! Ecco dove ti avevo già visto. Ci ho pensato da quando ti ho beccato sulla via di casa tua, quella sera, ma ero convinto che non c'entrasse col football» disse il biondo.
«Eri bravo. Anzi, eri bravissimo» si complimentò Jackson.
«Ero così giovane. Ero istintivo e avevo una voglia di spaccare il mondo talmente forte che a volte mi spavento a ripensare a quei momenti» ricordò Dylan.
«E dove è finito quel ragazzo? Che ne è stato di lui?» domandò il moro.
«L'hai capito dal gesto della pistola, o lo sapevi da quando ci siamo visti la prima volta?» cambiò argomento il biondo. Jackson abbassò lo sguardo sul terreno, osservando le loro gambe così vicine.
«Dal gesto della pistola. Io ricordo quel ragazzo, e lui giocava per passione. Ricordo la forza e l'aggressività in campo. Ricordo che quella finale la vincesti tu, praticamente da solo, con un quarterback inesistente e una squadra che pendeva dalle tue labbra. E, dopo che ho visto quel gesto, mi sono ricordato benissimo di te, Dylan Dawson» confessò quindi Jackson. Dylan deglutì rumorosamente.
«Perché mi hai fatto vedere quel video?» cercò di capire. A quel punto, il moro tornò a guardarlo.
«Quel ragazzo giocava per voglia, per passione, perché il football era più di uno sport: era la sua vita. Lo so benissimo, anche se non ho mai avuto la fortuna di provarlo sulla mia pelle. Per me era solo un modo di fare arrabbiare mio padre, un modo di essere riformista, di andare contro il sistema. Ma per te, per Sam, cazzo, per voi sì che era qualcosa per la quale lottare e combattere. E anche per Thomas è così. E sono certo che quel ragazzo non si sarebbe preoccupato del preside o delle pressioni sociali della città, ma avrebbe permesso a un giovane, talentuoso e appassionato ragazzo di avere la possibilità di dimostrare il proprio valore» tentò di convincerlo, infine, Jackson. Dylan sbatté le palpebre, evidentemente frastornato da quanto stava accadendo.
«Chi è Sam?» chiese, ignorando il resto del discorso. Jackson sentì un sussulto al cuore nell'udire il nome di suo marito. Non si era neppure reso conto di averlo citato. La gola gli si seccò e la bocca si asciugò completamente, quindi dovette muoverla a vuoto qualche volta prima di riuscire a rispondere.
«Io... non è importante ora. Non mi sono nemmeno reso conto di averlo nominato» ammise, sperando che l'argomento cadesse.
«Detesto l'imboscata che mi hai teso» chiarì il coach, alzandosi in piedi. La sua espressione era diversa, sembrava più freddo, distante. L'emozione era sparita, ed era rimasta solo molta indifferenza.
«Lo so, e mi dispiace, ma volevo che ti ricordassi il senso del football, il senso di questo sport e del tuo lavoro» spiegò Jackson. Dylan scosse il capo, arretrando di qualche passo.
«No, la verità è che sei come quei genitori che pretendono di impicciarsi continuamente della vita del figlio. Vieni da me, critichi le mie scelte, mi dai consigli in partita, ma non capisci cosa si prova a stare nei miei panni, o in quelli di Thomas o del resto della squadra. Lo farò, farò un provino a Thomas, gli permetterò di entrare nella squadra. Il nuovo Peyton Manning potrà finalmente giocare, spero che tu sia contento. Però, non voglio che mi parli mai più. Stammi lontano e lasciami allenare la mia squadra» fece brutalmente, voltandosi e allontanandosi di corsa. Jackson rimase a guardarlo inerme, incapace di rispondere alle sue parole. Era vero, gli aveva teso un'imboscata, ma una reazione del genere era eccessiva. Una lacrima gli bagnò la guancia. Quelle parole erano state come una coltellata nel petto. Anche se conosceva da poco quella persona, si era sentito legato in qualche modo a lui. E udire quelle cose, osservare quell'atteggiamento, percepire la sua freddezza e il suo distacco, l'avevano veramente distrutto. Si alzò e seguì la strada per tornare indietro, con una sensazione allo stomaco che conosceva fin troppo bene. Afferrò il cellulare e selezionò il contatto di Paige, poi premette sul numero e partì la chiamata. Qualche squillo dopo, la voce assonnata della donna gli riempì le orecchie.
«Jackson, tutto bene? Come mai chiami a quest'ora?» gli domandò. Lui corrugò la fronte, osservando l'orologio da polso.
«Ma Paige, a New York sono le dieci e mezza!» le fece notare, lei sospirò.
«Sì, ma ieri ho avuto una serata pazzesca: non uno, ma ben due ragazzi. Insieme» spiegò, facendo sorridere l'amico. Lei lo metteva di buon umore, e gli faceva piacere scambiare due parole.
«Spero non siano lì ora» disse poi.
«No, certo che no. Sai che non porto nessuno nel mio appartamento. Comunque, va tutto bene? Ti sento giù di corda» richiese lei. Jackson scosse il capo. Sì, sono solo un vedovo ventiseienne con un sedicenne a carico e ho appena combinato il mio primo casino in meno di un mese da "genitore", avrebbe voluto rispondere.
«Forse ho fatto una cazzata. Ora sto malissimo, e volevo parlarne con qualcuno» le confessò invece, cercando di aprirsi più alla parte sentimentale e lasciando stare il sarcasmo o il vittimismo del quale era più che capace.
«Certo, sai che puoi parlarmi di tutto. Vai, racconta, io mi faccio un thè» acconsentì lei.
«Il coach di Thomas non voleva ammetterlo in squadra. Io volevo che lui entrasse, che si divertisse. Ha perso la madre e il fratello, non volevo perdesse anche il football. Però, penso di aver calcato un po' la mano col coach, e ora mi odia e farà entrare Thomas per disperazione. Così, sono certo che lui non si divertirà, e finirà per detestarmi per come mi sono comportato» la fece breve il ragazzo, mentre continuava a camminare verso casa.
«Punto primo: questo coach è uno stronzo. Punto secondo: parla con Thomas, spiegagli la situazione, lui capirà. Punto terzo: anche se il coach ora ti odia, questo non ha importanza, no?» rispose Paige.
«Io... non lo so. Cioè, lui mi piace. Non intendo a livello sentimentale, eh, ma sento un collegamento. Ed è fottutamente figo» si lasciò andare il ragazzo, ammettendo tutto ciò che aveva pensato su di lui.
«Se anche fosse, non ci sarebbe nulla di male. Intendo dire che provare qualcosa per un altro uomo non ti rende una brutta persona. Sam non c'è più, e se potesse parlarci sicuramente ci direbbe che devi trovarti qualcuno finché sei giovane» banalizzò lei. Non era così semplice per Jackson. Non era interessato a Dylan da quel punto di vista, almeno non credeva. Sapeva solo che gli trasmetteva qualcosa, ma era difficile scindere la parte fisica da quella sentimentale. Sicuramente provava una certa attrazione, e già era un primo passo. Dalla morte di Sam non aveva più guardato un uomo, figurarsi sentirsi quasi sedotto da lui.
«Non lo so, Paige. Sono in difficoltà. Cazzo, sarei dovuto morire io quella notte, sarebbe stato tutto più facile» si limitò a dire Jackson.
«Non dire stronzate. Vorrei riavere Sam qui? Cazzo, sì che lo vorrei. Era praticamente un fratello per me, e la sua perdita mi fa male ogni giorno. Ma la tua è una stronzata enorme. Non pensarlo nemmeno per un secondo: tu fai del tuo meglio, e non è facile. Stai vivendo una situazione assurdamente complicata, e stai imparando cose nuove. Ma desiderare di sostituirsi a Sam è da egoista. Avresti voluto lui lì? Avresti voluto che soffrisse giorno dopo giorno, consumandosi per la tua perdita? È questo quello che desideri?» lo fece ragionare lei. Jackson annuì, ringraziando silenziosamente di avere un'amica come Paige, senza peli sulla lingua e con una grande intelligenza emotiva.
«Hai ragione. Faccio del mio meglio, e spero che le cose diventino più facili» convenne.
«E cerchi di ripartire. Se questo coach anche solo lontanamente ti dà qualcosa, allora impegnati per riuscire ad abbracciare quelle sensazioni. Se, poi, sarà troppo presto o non sarà quello giusto, allora avrai imparato qualcosa e avrai un'esperienza in più. Ma non chiudere porte ancor prima di vedere l'esterno, magari scopri che il paesaggio è migliore di quanto pensi e che passarci attraverso sia più facile di quel che sembra» lo incoraggiò lei. I due si congedarono, e Jackson si sentiva molto meglio dopo quella chiamata. L'aveva riportato alla realtà, facendolo ragionare e gli aveva permesso di parlare, di esprimere tutto ciò che aveva dentro. Non sapeva se avesse ragione su tutto, ma sicuramente sul fatto del ripartire l'aveva. Anche se, probabilmente, col coach nemmeno sarebbe stato possibile farlo, se anche Jackson avesse voluto. Non gli sembrava nemmeno lontanamente interessato a lui, e non conosceva nemmeno il suo orientamento sessuale. Però, doveva riprendersi e ripartire da zero, altrimenti si sarebbe consumato talmente tanto da diventare una nullità, trascinando anche Thomas nel baratro con lui. Per quello si promise che avrebbe tentato con tutte le sue forze di ripartire, senza dimenticare l'amore che sentiva per Sam, ma nella convinzione che lui avrebbe voluto proprio quello per Jackson: che fosse felice.

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