Capitolo 9

685 61 10
                                    

«Posso fidarmi a lasciarvi soli?» domandò Jackson, guardando suo fratello e, subito dopo, Thomas. Quest'ultimo alzò gli occhi al cielo.
«Ho sedici anni, e mi sembra giusto che tu prenda una giornata per te» gli ricordò, sorridendogli. Jackson corrugò la fronte e assottigliò gli occhi.
«Va bene, ma ti prego: non farmene pentire. Parlo con te, Rudy. Ti ricordo che sei l'adulto» fece notare. Quest'ultimo rise e si alzò dal divano, quindi avanzò verso il fratello maggiore e lo spinse fisicamente verso la porta di ingresso.
«Vai e divertiti, troverai tutto in ordine quando tornerai. Sono un Marine, utilizzerò il metodo militare per sorvegliare il piccolino oggi» lo schernì poi, facendo ridere Thomas. Jackson era sempre più convinto che quei due gli stessero nascondendo qualcosa, ma non aveva il tempo di verificarlo perché era ora di andare. Si era pentito di aver accettato l'invito di Dylan Dawson, ma era troppo tardi per tornare indietro, quindi scese le scale del palazzo e si precipitò in strada. Erano le nove del mattino, esattamente l'orario che l'altro gli aveva comunicato il giorno prima, quindi attese. La giornata era calda, la primavera finalmente si avvertiva anche in Oregon, dove le stagioni sembravano avere poco senso per via della versatilità del meteo. Poco dopo vide un'Audi rossa fermarsi nei pressi del palazzo. Il finestrino del lato guidatore si abbassò e un sorriso luminoso riempì gli occhi di Jackson.
«Buongiorno. Vuoi accomodarti?» lo invitò un Dylan raggiante. Aveva degli occhiali da sole all'ultimo grido e il solito cappellino della squadra di football. Jackson rispose al contagioso sorriso e si sedette dal lato passeggero.
«Dove andiamo di bello?» cercò di capire. L'altro scosse il capo, abbassandosi gli occhiali e guardandolo con quei bellissimi pozzi azzurri.
«Ti ricordo che è una sorpresa» fece notare, osservandolo da testa a piedi. «Dovremo risolvere un problema prima di arrivare. Ma sono partito preparato, quindi in realtà possiamo occuparcene anche successivamente.»
«Non sto capendo un cazzo» rispose poco finemente Jackson. Dylan scoppiò a ridere, poi mise in moto il veicolo e accese la radio.
«A te il compito di deejay, io mi occupo di pilotare l'astronave. Copilota, abbiamo due ore di viaggio ad attenderci. Pronto per questa magica avventura?» domandò. L'altro scosse il capo. In cosa diavolo si era andato a cacciare? E perché parlava di astronavi e di magiche avventure?
«Sarei pronto se sapessi dove stiamo andando» ribatté. L'altro fece l'imitazione con la bocca per schernirlo.
«Come sei ripetitivo e noioso» protestò. Jackson sbuffò.
«Io? Sei tu che mi stai letteralmente rapendo, senza darmi possibilità di conoscere cosa ne sarà del mio destino. Sei un criminale» lo apostrofò.
«Noioso» ripeté Dylan.
«Criminale» insistette, quindi, Jackson, cambiando stazione radio.
«Mi piaceva la canzone di prima» fece notare il coach. L'altro alzò gli occhi al cielo.
«Non ero io il deejay?» cercò di capire. Dylan sospirò.
«Sì, ma devi un po' mediare. Se metti solo roba country, rischio di suicidarmi prima del nostro arrivo, e così ti perderai le... cioè, ti perderai la sorpresa» gli spiegò. Jackson lo guardò di sbieco.
«Cioè, fammi capire, io non posso sapere dove stiamo andando ma tu puoi avere le canzoni che vuoi alla radio?» chiese. Il biondo sembrò ragionarci un momento, mentre si immetteva in autostrada.
«Esatto» confermò poi. Jackson sbuffò, voltandosi dall'altra parte. Sarebbe stato un viaggio lungo e stressante. Dopo il consistente tratto in autostrada, Dylan condusse la sua auto lungo delle scomode stradine di montagna, caratterizzate da curve strette e paesaggi mozzafiato. Jackson passò tutto il tempo a metà tra lo stupore di quelle viste e la paura di morire per la velocità con la quale prendeva quelle ostiche svolte il biondo. Non parlarono granché nei fatti, salvo nei primi momenti. Parlarono principalmente di football: di Giants e Jets, si scambiarono pareri sui giocatori migliori della storia. Per Dylan, Peyton Manning era imbattibile, mentre Jackson sosteneva che Tom Brady fosse il miglior quarterback mai esistito. Riuscirono a litigare anche su due mostri sacri come loro. Era evidente che i due fossero sempre in disaccordo, su qualsiasi cosa. Eppure, quel viaggio non fu insopportabile come Jackson aveva immaginato all'inizio. Nonostante tutto, nonostante le discussioni e le curve prese troppo velocemente, sentiva una sorta di adrenalina. Quell'avventura a busta chiusa era quello che gli serviva, anche se non l'avrebbe mai ammesso a voce alta. Jackson Hunt aveva bisogno di avere il controllo sempre e comunque, ma in quel caso aveva deciso di cederlo momentaneamente a Dylan, e quella situazione gli stava facendo bene. Si stava rendendo conto di cosa significasse essere vivo, alla costante scoperta di cose nuove e con la leggerezza mentale di chi non aveva nulla da perdere.
Così, il coach parcheggiò dopo due lunghe ore di viaggio nei pressi di una piccola baita abbandonata nel nulla. I due scesero dal veicolo, sgranchendosi le gambe e schioccandosi la schiena. Dylan aprì il bagagliaio e prese un borsone, poi lo lanciò all'altro.
«Cos'è?» chiese questi. Il biondo fece un cenno col capo.
«Devi cambiarti» gli spiegò. Jackson aprì il borsone e vide degli abiti da montagna e degli stivali, quindi si voltò e scosse il capo.
«Non potevi darmi il dress code prima di uscire?» domandò. L'altro sorrise.
«Così avresti scoperto dove ti portavo» fece notare Dylan. Jackson sbuffò e avanzò verso un albero, poi si girò di spalle e tolse la maglietta e il pantalone. Sentiva gli occhi dell'altro puntati su sé stesso, ma forse era solo una sua impressione. Arrossì, pensando che lo stesse guardando spogliarsi. Sperava di starlo facendo in maniera sexy, anche se di solito era talmente impacciato da risultare l'esatto opposto. Sam glielo diceva sempre: lui e sexy nella stessa frase non andavano d'accordo. Eppure, lui l'aveva amato con tutto il suo cuore, prima di morire. Quella era la dimostrazione che non serviva essere più di tanto seducente nella vita, bastava essere sé stessi e si riusciva a conquistare qualsiasi battaglia.
«Sono pronto» disse poi, voltandosi e constatando che effettivamente Dylan lo stava osservando. Questi distolse lo sguardo, imbarazzato, e si fece restituire il borsone con i vecchi vestiti dell'altro.
«Perfetto, ora direi che è il caso che tu mi segua, non vorrei che ti perdessi nella foresta» lo mise in guardia, superando una recinzione. Jackson lo imitò, scavalcandola anch'egli.
«Non stiamo facendo qualcosa di illegale, vero?» si assicurò. L'altro sorrise. Era bellissimo quando lo faceva.
«È illegale solo se vieni scoperto» rispose. Jackson alzò gli occhi al cielo. Fantastico, si stavano introducendo illegalmente Dio solo sapeva dove. Poteva andare peggio quella giornata?

Era passata un'ora da quando i due ebbero superato la recinzione e si furono introdotti nella foresta. Da quel momento, Jackson non aveva visto che alberi. Il paesaggio sembrava fantastico, ma il bosco era veramente fitto e impediva di scorgere cosa vi fosse più in là di pochi metri. La stagione era perfetta per quell'escursione: il sole era alto in cielo, ma un venticello gradevole rinfrescava l'ambiente, rendendo semplice la camminata ed evitando ai due di sudare copiosamente.
«Ci siamo persi» decise di suggerire, a quel punto, Jackson. Dylan scosse il capo, fermandosi e voltandosi.
«Assolutamente no. Perché sei un uomo di così mala fede?» chiese. L'altro alzò le sopracciglia e lo guardò di sbieco.
«Perché ti ho chiesto mezz'ora fa quanto mancasse ad un posto che avesse meno alberi e mi hai risposto "ci siamo quasi". A me, onestamente, non sembra che ci siamo quasi» spiegò.
«Perché non conosci il posto. E poi, Dylan Dawson ha un senso dell'orientamento pazzesco» ribatté il biondo, andando avanti.
«Non potevamo scaricare una mappa da internet finché c'era campo? E perché parli di te in terza persona?» domandò Jackson.
«Avremmo potuto. Ma a Dylan Dawson non servono mappe. Tutta la strada è qui, nel mio cervello» rispose quindi il coach.
«Siamo messi bene» commentò a bassa voce l'altro. Camminarono per altri dieci minuti, quando finalmente si intravide qualcosa in lontananza. Dylan accelerò il passo e raggiunse una zona meno alberata, quindi fece cenno all'altro di fermarsi.
«Okay, ci siamo, uomo di mala fede. Sei pronto a vedere qualcosa di pazzesco?» si informò. Jackson sentì il cuore battergli velocemente, quindi annuì.
«Sì. No. Cioè... aspetta. Credo di sì» confermò, avvicinandosi all'altro. Non appena fu dov'era lui, si voltò e rimase senza fiato. Non aveva mai visto nulla del genere: una vallata tra due montagne era costellata da alberi di diverse forme e dimensioni, che riempivano tutto lo spazio sino alla zona sottostante ai due ragazzi, dove una diga bloccava il corso di un lago e, su di esso, si rompeva una cascata a due fasi, che partiva dalla vallata e passava attraverso la fitta vegetazione, sino a produrre quel flebile ma udibile rumore di schianto assolutamente rilassante. Il cielo era azzurrissimo, poche nuvole bianche lo sporcavano, e il sole, con i suoi raggi potenti, illuminava l'acqua e le rocce delle montagne, aggiungendo all'ambiente un ennesimo elemento che, assieme al resto, costruiva un paesaggio inimmaginabile.
«Benvenuto a Toketee Falls» lo accolse con un sussurro Dylan. Jackson si voltò e lo guardò. Lui era il coronamento perfetto per quella fotografia splendida: un gladiatore in abiti da montagna, un fisico perfetto, un sorriso luminoso, due occhi che raccontavano più di mille parole e una voce talmente soave e gentile da essere quasi irreale.
«Io... sono senza parole» ammise Jackson, guardandolo negli occhi. L'altro annuì, afferrandogli una spalla e stringendola.
«Ora, ci sono due tipi di persone. Coloro che scendono le apposite scale e mi seguono in acqua, e quelli che sono troppo femminucce per farlo. Tu a quale categoria appartieni?» domandò Dylan, riportandolo alla realtà. Jackson sorrise.
«A quella di chi si butta in acqua prima di te» rispose, correndo giù per le scale. Sentì il coach imprecare, poi lo vide seguirlo di fretta, ma Jackson non era intenzionato a perdere. Accelerò il passo non appena fu giù dalle scale e si tolse al volo i vestiti, rimanendo in mutande, quindi si tuffò nel lago sotto gli occhi di alcuni presenti esterrefatti. Dylan lo imitò, ignorando anch'egli il cartello che aveva l'intento di segnalare ai turisti il divieto di fare il bagno.
«Sei pazzo, non credevo lo facessi veramente. Sai che potrebbero arrestarci?» gli fece notare il coach. Jackson alzò le spalle.
«Confido nel destino» spiegò quindi, osservando ancora una volta il panorama. Lui non era il tipo di persona che correva quei rischi, che ignorava un divieto. Lui era uno di quelli che viveva seguendo le regole, che amava farlo e sapeva che era importante. Ma in quel momento non gli importava. Per la prima volta da diversi mesi stava riuscendo a divertirsi, a vivere, a non pensare a quanto gli mancasse Sam. Per la prima volta dal funerale del marito, si sentiva vivo, reale. E non era il solito lui: era un'altra persona, un'evoluzione di sé stesso. Finalmente capì cosa intendevano Thomas e Rudy quando dicevano che non avrebbe dimenticato Sam, ma sarebbe andato avanti. Era esattamente quello: il ricordo di Sam, nel suo cuore, l'avrebbe reso diverso. Non era più Jackson Hunt, ex wide receiver e pasticcere, marito modello e amico scadente. Era una nuova persona, tutta da scoprire che, grazie agli attimi della sua vita passati con Sam, era in grado di conoscere l'amore per le cose, per le persone e per i momenti che lo meritavano. Era padre e, allo stesso tempo, fratello di un ragazzino, era amico e complice di quello strambo coach, e qualsiasi altra cosa avesse voluto essere. Per lui, finalmente, in quel momento vide la luce un vero nuovo inizio. 

Un Nuovo InizioDove le storie prendono vita. Scoprilo ora