Capitolo 7

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Thomas si alzò al termine della lezione di chimica, riponendo i libri nello zaino e preparandosi a due ore buche al centro della giornata. Uscì dall'aula, decidendo il da farsi. Gli sarebbe piaciuto recarsi al campo per fare due tiri, ma non sapeva come l'avrebbe presa il coach. Scosse il capo. Quella situazione lo rendeva a tratti triste e arrabbiato. Detestava non poter giocare, non poter esprimere il suo potenziale sul campo. Quello sport era tutto quello che aveva, era ciò che lo rendeva una persona vera, la sua passione, il suo interesse. E quello stupido coach non capiva quanto fosse importante per lui. Decise che non gli importava di cosa avrebbe pensato, sarebbe andato al campo a fare due tiri. Superò i due corridoi che lo separavano dall'uscita che dava sugli spogliatoi e imboccò il tunnel che l'avrebbe condotto al prato verde. Lasciò lo zaino a terra nei pressi degli spalti, poi avanzò, toccando il legno della panchina. Una cesta con diverse palle ovali era depositata nei pressi del tunnel, così ne raccolse una e se la passò tra le mani. Non era certo vestito nel modo migliore per fare sport: indossava un paio di jeans larghi, una maglietta scura e una felpa grigia, ma non importava. Vide che c'erano un paio di ragazzi al centro del campo, così li raggiunse. I due lo guardarono di sbieco, non capendo chi fosse. Lui, però, li conosceva bene: uno era una guardia e l'altro un wide receiver, li aveva visti giocare nel corso dell'ultima partita.
«Ciao, mi chiamo Thomas, vi ho visto nella scorsa partita. Vi va di fare due tiri?» propose. I due si guardarono rapidamente per un momento. Il wide receiver era biondo, mentre l'altro era moro come Thomas.
«Perché mai dovremmo? Tu chi sei, scusa?» si informò il biondo. Thomas gli sorrise, guardandolo dritto negli occhi verdi.
«Sono solo un ragazzo nuovo che ha voglia di giocare. Di cosa avete paura?» li provocò poi. Loro scoppiarono a ridere in sincro.
«Sei capace di usarla?» lo prese in giro il biondo, indicando col capo il pallone.
«Scoprilo» lo invitò quindi Thomas, allontanandosi a passo svelto dalla loro posizione. Si posizionò sulle cinquanta iarde, poi mise una mano sugli occhi per ripararsi dal sole. «Andiamo, cosa fate, rimanete lì? Un passaggio da dodici iarde? Mettetemi almeno in difficoltà.»
«Va bene, Thomas il nuovo arrivato, l'hai voluto tu» decise il biondo, correndo verso le venti iarde e rimanendo in attesa. Thomas sorrise. Lanciare era solo una questione di concentrazione. Doveva sentire il vento sulla propria pelle, capire quanto soffiasse forte e potesse spostare la palla, doveva percepire i difensori avversari in una frazione di secondo, capire come si sarebbero comportati e in quanto tempo avrebbero reagito, infine doveva capire quanto il wide receiver che aveva davanti fosse in grado di afferrare un pallone a mezza altezza, a che potenza consegnarglielo e dove. Il lavoro del quarterback era quello. Poi, ovviamente, bisognava collegare cervello e braccio per effettuare il lancio. Fu quello che Thomas fece, servendo un pallone perfetto che si depositò tranquillamente tra le braccia del biondo. Questi rimase sbalordito. «Il ragazzo ci sa fare.»
«E non hai ancora visto nulla» gli urlò Thomas. Corse ad afferrare un nuovo pallone, poi si portò molto più indietro, mettendo almeno sessanta iarde tra sé e l'altro giocatore. Si chinò leggermente, flettendo le ginocchia e inebriandosi di quella sensazione. Immaginava il pubblico sugli spalti, i difensori avversari che tentavano di intimorirlo, lo speaker che gridava il suo nome, il coach che lo guardava e la squadra che pendeva dalle sue labbra. Tutto era talmente adrenalinico da dargli una carica pazzesca. Si alzò, fece due passi indietro e lasciò partire la palla ovale, vedendola roteare verso il biondo, che la afferrò a mezza altezza sessanta iarde oltre. Un passaggio perfetto per Thomas Garrington, immaginò di sentir dire allo speaker.
«Cazzo, ragazzo, sei veramente bravo» si complimentò a quel punto il biondo, dopo essersi avvicinato a lui. Anche la guardia, che fino a quel momento non aveva parlato, lo imitò, stringendogli per primo la mano.
«Piacere di conoscerti, Thomas, io sono Hugh Phader» fece poi il silenzioso. Thomas sorrise, guardando l'altro, quello che più di tutti era stato spavaldo.
«E io sono Philip Turner» si presentò anche lui, sempre stringendogli la mano.
«Io, invece, sono Thomas Garrington, e se solo mi aveste in squadra, vi garantisco che i playoff vi divertirebbero molto di più» si vantò.
«Amico, devi assolutamente entrare in squadra. Cazzo, sei cento volte più bravo di Tyler» lo elogiò Philip. Thomas alzò le spalle. Sapeva che era vero, ma il problema era il coach, che non voleva sentire ragione. Jackson gli aveva raccontato che due giorni prima aveva fatto un tentativo estremo, al bosco, e pensava di aver rovinato definitivamente le sue chances di essere in squadra o di essere protagonista. Eppure, Thomas non gli dava colpe. Jackson faceva del suo meglio, e senza di lui Thomas sarebbe stato solo, abbandonato nella terribile villa di zia Viola, una vera e propria strega. La colpa era solo del coach Dawson e dei suoi rigidi schemi mentali. Quello che, però, Thomas non sapeva era che il gruppo di ragazzi non era solo al campo. Loro si divertirono ancora, lanciando e correndo per un'ora, ma qualcuno, da lontano, li osservava. Gli occhi azzurri di Dylan Dawson si gustarono tutta la scena. Lui non vide soltanto un ottimo quarterback, ma vide anche un leader. Il modo in cui si comportava, il modo in cui trattava gli altri due. Vide la sintonia tra quarterback e wide receiver, elemento fondamentale per ogni squadra vincente. Notò tutti quegli elementi che lo fecero ricredere immediatamente sul conto di Thomas Garrington. Non aveva mai dato una possibilità a quel ragazzo, non aveva nemmeno guardato la chiavetta che gli aveva dato Jackson con le sue migliori giocate. E aveva sbagliato di grosso. Sentì un magone allo stomaco per il modo in cui l'aveva trattato due giorni prima. Jackson aveva fatto quello che un genitore avrebbe fatto: aiutare suo figlio. E lui, anziché capire le sue difficoltà, l'aveva respinto, trattandolo in quella maniera disgustosa, non da lui.

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