Capitolo 11

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La pioggia continuava a cadere incessantemente. I lampi squarciavano il cielo, generando il rombo dei tuoni che, rumorosamente, si abbattevano in ogni dove, riempiendo le orecchie delle persone che si sforzavano di non prestarci attenzione. Jackson si asciugò le lacrime, guardandosi allo specchio. Aveva un aspetto terribile. Come sarebbe potuto tornare in sala? Come avrebbe fatto a parlare con Dylan e a comportarsi come se nulla fosse accaduto? Il rumore della porta dei bagni che si apriva interruppe i suoi pensieri, così vide allo specchio i capelli biondi del coach spuntare dall'uscio. Questi si avvicinò e raggiunse l'altro, poi sorrise.
«Va tutto bene?» chiese, con un tono di voce dolce e soave. Jackson scosse il capo. Era stanco di omettere o mentire, non poteva fingere che tutto andasse per il verso giusto.
«No. Ma non è colpa tua» rispose, con la voce rotta per il pianto che aveva appena terminato. L'altro si avvicinò ancora di più e gli passò un braccio sulle spalle.
«È la seconda volta che me lo dici» fece notare. «Ma ti credo. E voglio aiutarti.»
«Io non... non c'è nulla che tu possa fare» disse Jackson.
«Possiamo andare in auto e tornare indietro, oppure proseguire verso Eugene, comunque stare in un posto meno puzzolente di questo bagno» propose. L'altro scosse il capo rapidamente, quindi si voltò e lo guardò negli occhi.
«Ti prego, non voglio che guidiamo con la pioggia» confessò. Dylan annuì, afferrandogli un braccio e stringendolo per un momento.
«Certo. Guarda, possiamo prendere una stanza e rimanere al motel finché il tempo non si calma. Che ne dici?» tentò il biondo.
«Sì» confermò Jackson, quindi Dylan gli sorrise.
«Ora lavati un momento il volto e andiamo. Non puoi uscire così, o penseranno che ti ho picchiato o violentato» spiegò, facendolo ridere. Si pulì velocemente il volto e tentò di riordinarsi il meglio possibile, quindi i due uscirono dal bagno. Jackson seguì Dylan lungo il corridoio che li portava alla cassa e lo vide pagare per il pranzo ancora quasi interamente nei piatti, quindi procedettero fuori dal locale. Percorsero pochi metri sotto la tettoia che separava il ristorante dal motel, poi entrarono nella nuova struttura. Un'anziana signora li accolse col sorriso.
«Cosa posso fare per voi?» chiese. Dylan si schiarì la gola.
«Vorremmo due stanze per la notte» spiegò. Jackson scosse il capo.
«Una» lo corresse. Il biondo lo guardò interdetto per un momento, poi annuì e sorrise alla signora. Lei lo fece firmare su un registro e gli chiese un documento, poi gli diede le chiavi di una stanza e congedò i due uomini, che si diressero alla camera assegnatagli. «Scusa se ho insistito per una stanza sola.»
«Non c'è problema, per me va benissimo, la mia era solo galanteria» commentò, sorridendogli ancora. Jackson annuì, guardando a terra mentre entravano nella stanza.
«È che non volevo rimanere solo» rispose con un filo di voce. Lo disse più per sé stesso che per Dylan, ma lui lo sentì e si voltò immediatamente a guardarlo.
«Non lo sei» gli ricordò, con una voce gentile e accogliente. Jackson osservò la camera: un letto matrimoniale era posto sulla destra, contornato da due comodini. Vi era un televisore di fronte ad esso, con un armadio accanto. Infondo la porta del bagno conduceva alla piccola stanzina con il water, una doccia e il lavandino. Si stese sul letto, cercando di rilassarsi. Stava facendo una pessima figura agli occhi di Dylan, e per quello non si sarebbe mai perdonato. Non voleva che lo vedesse così fragile, così abbandonato a sé stesso.
«Mi dispiace di aver rovinato la giornata. Cazzo, starai pensando che sono una femminuccia» disse poi. Il biondo si sedette accanto a lui sul letto, poi sdraiò la schiena. I loro volti erano a pochi centimetri di distanza l'uno dall'altro.
«No, penso solo che sei una persona molto sensibile e che sono stato un coglione a non accorgermi prima che qualcosa non andava» ribatté. Jackson poteva sentire il suo respiro sul volto, poteva osservare chiaramente il colore dei suoi occhi da vicino e quelle sensazioni lo aiutavano a calmarsi, a essere meno agitato, a pensare meno a Sam.
«È che non mi piace la pioggia» spiegò Jackson.
«Ne vuoi parlare?» chiese Dylan. L'altro si alzò in piedi e raggiunse una finestra. Vide l'acqua che bagnava il vetro e le sporadiche illuminazioni che i lampi generavano. Rabbrividì, ripensando per l'ennesima volta a quella notte.
«Ero sposato» confessò infine. Dylan alzò la schiena dal materasso e guardò l'altro con gli occhi spalancati. Jackson si voltò e lo osservò per un momento, per poi tornare a concentrarsi sul vetro. Notò che i suoi capelli biondi erano leggermente bagnati per via della pioggia e gli si appiccicavano alla fronte in una maniera veramente tenera.
«Eri?» domandò. Jackson sorrise, immaginando il volto di Sam fuori dal vetro, allegro e gioioso come sempre.
«Con un uomo» puntualizzò con un filo di voce. Non sapeva quanto Dylan avesse capito della sua omosessualità, ma non era una cosa che aveva intenzione di tenere nascosta a priori. Non credeva nel concetto di "outing", ovvero dover andare dalle persone e permettergli di sparlare della propria vita privata. Semplicemente, era della scuola di pensiero secondo la quale non avrebbe mai mentito sulla sua sessualità e le sue relazioni, ma avrebbe confessato la verità solo qualora fossero venuti fuori tali argomenti in discussioni private.
«Non serve specificarlo. Cioè, non ho assolutamente pregiudizi» rese noto il biondo. Jackson si morse un labbro. Non pensava avesse pregiudizi o simili, ma gli faceva piacere sentirlo parlare così. 
«Sono stato sposato sei anni. Lui è morto quasi otto mesi fa» raccontò infine. Dirlo gli faceva sempre male, ma si fidava di Dylan e non gli pesava il racconto in sé. Sapeva che a Sam sarebbe piaciuto, l'avrebbe spronato a coltivare quell'amicizia. Gli avrebbe detto che era un gran figo, e quello non poteva che aumentare l'interesse che avrebbe dovuto sviluppare nei suoi confronti. Sorrise, pensando a quello che lui gli avrebbe consigliato di fare. Sam aveva una mentalità molto aperta: per lui le relazioni richiedevano anche di apprezzare altri uomini, a patto che i sentimenti fossero sempre condivisi nella coppia. Nessuno dei due si era mai approcciato ad altri, perché non serviva, ma a loro bastava sapere che avrebbero potuto farlo, che erano liberi, ma che l'unico vincolo era di amarsi l'un l'altro per sempre, e quello mai era stato in discussione.
«Io... cazzo, Jacky, mi dispiace tanto» disse poi Dylan. Jackson spalancò gli occhi e si voltò di scatto. Jacky. Solo Sam e suo fratello lo chiamavano in quel modo, e sentir pronunciare quella parola dalle labbra del biondo gli aveva trasmesso una sensazione strana. Era sorpreso ma, da un certo punto di vista, gli parve che quel semplice nomignolo significasse qualcosa. Un collegamento, un rapporto, qualcosa che stavano iniziando a costruire e condividere.
«Non è colpa tua» si limitò a rispondere, cercando di sorridere anche se gli risultò molto difficile.
«Come è successo?» tentò di capire il biondo. Jackson lo guardò negli occhi e vide l'empatia che stava provando l'altro. L'azzurro delle sue pupille era talmente velato e triste da trasmettergli una sensazione quasi devastante. Dovette appoggiarsi con una mano alla parete per rimanere in piedi. Come era possibile che quell'uomo stesse empatizzando così tanto con lui?
«Una notte doveva andare a prendere la mamma all'aeroporto. Gli avevo detto di stare attento, che la pioggia cadeva forte. Non è stata colpa sua. Un albero è caduto in mezzo alla strada, ha dovuto sterzare ed è finito nella prateria. La sua auto è rotolata per metri. Sono morti entrambi sul colpo» disse a fatica Jackson. Era così difficile raccontare quei fatti, riviverli. Le lacrime presero a scorrergli sulle guance e lui nemmeno se ne rese conto. Dylan si alzò in piedi e si avvicinò a lui, quindi con i due pollici gli asciugò le lacrime, sorridendogli.
«Sam, così si chiamava?» fece poi, con una voce talmente rassicurante e calma da far tranquillizzare anche Jackson.
«Sì. Era un quarterback molto bravo. Ha rifiutato l'NFL per me, perché secondo i selezionatori non era opportuno avere un omosessuale sposato in spogliatoio. Lui ha scelto di vivere la sua relazione alla luce del giorno, e così è finito nel dimenticatoio» spiegò.
«Conosco questo tipo di clausole nei contratti delle squadre in NFL. E lui ha avuto molte palle a rifiutare quel tipo di offerta. Quindi, Thomas è suo fratello?» cercò di capire. L'altro annuì.
«Sì. Non aveva nessuno, quindi eccoci qua. Un fallito e un ragazzino, a vivere in questo stupido buco di merda in Oregon. E piove anche» rispose Jackson. Dylan rise per un momento, poi gli afferrò le mani e lo guardò dritto negli occhi.
«Non immaginavo che avessi sofferto così tanto. Io... mi sento uno stronzo per tutto. Per come sono andate le cose finora, per quello che ho detto e che ho fatto. E no, non sto provando pena per te. Però, sappi che non sei solo» ricordò il biondo. Jackson scosse il capo, sorridendo. Quante persone glielo ripetevano? E, alla fine, cosa mai potevano fare per aiutarlo?
«E in che modo potresti rendermi meno solo?» domandò. Il coach continuò a guardarlo nei gelidi occhi, incastonando in essi le proprie pupille azzurre e luminose.
«Condividendo il tuo dolore. È così che si sta vicino a una persona. Quando dico che non sei solo, non è una frase di circostanza. Io ti prometto di aiutarti, di starti accanto e di spartire il dolore che provi con te, di toglierti un peso» spiegò. L'altro scosse ancora il capo.
«Come?» chiese poi, continuando a non capire. Dylan sorrise. Gli stava ancora tenendo le mani e Jackson pensò che quel momento era fottutamente tenero.
«Standoti accanto. Ti chiamerò, usciremo assieme, ti aiuterò in tutto ciò che vorrai fare. E non mi importa che non mi chiamerai, io sarò comunque lì. Ti sosterrò, parleremo di lui, lo ricorderemo insieme. Così ti aiuterò, e lo farò anche dicendoti e ripetendoti sempre che non è stata colpa tua» chiarì.
«Non puoi saperlo» lo corresse Jackson. Dylan scosse il capo, stringendo più forte le sue mani.
«Non è stata colpa tua, Jackson Hunt. Cosa potevi fare? Conoscere il futuro?» cercò di spiegargli.
«Non lo so, ma qualcosa avrei dovuto fare. Se solo fossi stato più convincente. Magari se fossi andato con lui, gli avrei fatto perdere tempo e saremmo arrivati dopo il crollo dell'albero. Io... non lo so, fatto sta che io sono qui e lui no. Ci siamo detti "per sempre", ma io non c'ero, non ero con lui. Quindi sì, cazzo, certo che è colpa mia» rispose poi, togliendo le mani da quelle del biondo e arretrando di un passo.
«Non è così. Cerchi un motivo per giustificare la tua tristezza, la tua rabbia, ma non serve. La perdita la giustifica già da sola» sostenne Dylan.
«Andiamo, queste frasi fatte te le puoi evitare» disse poi il moro. Il suo umore era completamente mutato: la tristezza aveva lasciato il posto alla rabbia, che lo aveva completamente avvolto, annebbiando la sua mente e rendendolo irrazionalmente aggressivo.
«Tirami un pugno» propose il biondo. L'altro aggrottò la fronte.
«Cosa?» tentò di capire. Dylan indicò il petto e l'addome.
«Tirami un pugno. Possibilmente non sul volto» si raccomandò. Jackson scosse il capo.
«Sei impazzito?» domandò. Dylan si avvicinò a lui e lo guardò ancora una volta negli occhi.
«Tirami un cazzo di pugno» ripeté, con un tono molto più simile a un obbligo. Jackson chiuse gli occhi per un momento, poi li riaprì e lo colpì sull'addome.
«E ora?» chiese poi, non capendo quale fosse l'obiettivo.
«Ora tiramene un altro, e continua finché vorrai. Avanti, non fare la femminuccia, quello non era un pugno, era una carezza» lo spronò. Jackson prese fiato e lo colpì ancora, e ancora, e ancora, con tutta la sua forza. Pensava a Sam, a quanto gli mancasse, a quella notte. Si sfogò completamente, tornando a piangere alla fine. Non sapeva quanti pugni gli avesse tirato, ma Dylan rimase lì, immobile a prendersi i colpi. Quando si fermò, singhiozzava. Si appoggiò con la schiena al muro e si coprì il volto con le mani. Sentì il corpo caldo del biondo appiccicato al suo, e le sue braccia circondarlo e toccargli la schiena. Lo strinse forte, permettendogli di piangere, di manifestare tutte le sensazioni che provava senza giudicarlo, senza parlare di cose che non sapeva, senza chiedergli di smettere. Era semplicemente lì e lo stringeva a sé con fare protettivo. A quel punto, Jackson capì cosa significava condividere il dolore. E si sentì libero, per una volta, di sfogarsi, di essere sé stesso, di mostrare quanto gli mancasse suo marito. Un tuono fece tremare le pareti, ma lui quasi non se ne accorse, perché era tra le braccia dell'altro, al sicuro da qualsiasi temporale o forza esterna.

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