Aprì gli occhi.
Il piacevole tocco dell'erbetta umida già provato in precedenza lo fece sorridere. Non sapeva dove si trovasse, ma il solo aver abbandonato il duro cemento lo tranquillizzava. Odiava quel posto e il petto faceva male.
Non capiva cosa volesse dire odiare, la stella suggerì di dimenticarsi di quella parola.
Obbedì.
Il mondo scuro si estendeva senza una fine, senza una meta, senza uno scopo.
Fece un passo avanti, non cambiò nulla. Si guardò intorno. Alle spalle qualche albero, una betulla e un abete - da quanto aveva spiegato la stella - che si distinguevano non tanto per il colore quanto per la forma. Era tutto buio, d'altro canto. I capelli svolazzarono, fissò la luna che lo continuava a seguire senza muoversi. Davvero bella, constatò. Un fruscio alle sue spalle e le chiome dei due alberi si mossero con forza. Fecero capolino due occhi tenebrosi. Arretrò, spaventato, ma la stella lo invitò a non indietreggiare.
Obbedì.
Una testa tonda e ricoperta di pelo sbucò tra le foglie della betulla. Si mosse di scatto, guardandolo per diversi secondi. L'uomo faticò e reggere lo sguardo. Si mosse di nuovo, questa volta più nervosamente. Gli occhi sparirono, allargò il pelo sul collo, girò la testa di centottanta gradi, tornò nella posizione iniziale. L'uomo si avvicinò e allungò la mano per toccarlo. Lo strano animale fischiò e allargò le ali ricoperte di pelo sporco. Le sbatté due volte, prese il volo e sparì.
Vide, sullo sfondo nero e rischiarato dalla sola luna, i suoi occhi tenebrosi. Continuavano a fissarlo e sembravano odiarlo. Chiese nuovamente cosa significasse quella parola. La stella gli disse che non era il momento. Chinò la testa.
Obbedì.
In compenso la stella gli spiegò che quello che aveva visto fosse chiamato gufo e che quello che lo ricopriva non fosse pelo, bensì piume. L'uomo pensò – per aggregazione delle immagini – alla coda di una freccia, poi alla freccia intera. La stella si irritò e lo ammonì. Prima che potesse intristirsi si mosse ancora qualcosa, un nuovo fischio, un rumore di passi, silenzio. Si guardò intorno, alla ricerca spasmodica di qualcosa che non riusciva a trovare.
Uno strano animale, snello e agile, comparve dal limitare della foresta. Lo guardò facendo brillare le iridi, gli girò intorno a passi lenti e misurati, sbavando e ringhiando leggermente. Raggiunse i due alberi. Graffiò il tronco e, con un'eleganza che non sembrava appartenere al gesto, alzò la zampa posteriore per urinare. L'uomo non capì e si dovette far spiegare tutto, le chiese se anche lui potesse farlo. La stella rise e rispose che poteva, ma solo quando ne avesse sentito bisogno. Quello non era il momento, come per tutto il resto: l'uomo aveva un compito e "tutto il resto" era un eccedere non concesso.
La lince, dopo aver marcato il territorio, lo squadrò per accertarsi se avesse capito o meno. L'uomo provo ad avvicinarsi e allungò la mano. Toccò la testa morbida sotto lo sguardo attento dell'animale, che sembrò sorridere. Sempre che quello potesse essere definito un sorriso. Ringhiò più forte, si voltò e corse via, continuando a guardarlo con occhi pieni di odio. L'uomo si rivolse alla stella.
«Perché mi guardano con così tanto odio? Perché scappano? Io non ho fatto nulla. E cos'è questo odio? Me lo diresti, eh, stella?»
Un nuovo rumore, questa volta più pesante. Un bellissimo ed enorme cerbiatto con una sfera storta intorno alla testa lo guardava. Bellissimo, elegante, carismatico. La guida lo corresse, definendolo leone. Lo trovò davvero affascinante. Il leone abbassò il muso, mosse la criniera scura, sbadigliò e lo circondò come aveva fatto la lince. Ruggì con forza. Un rumore sordo, incredibilmente potente e spaventoso lo fece arretrare. Deglutì d'impulso, spaventato. La stella lo invitò a tranquillizzarsi.
STAI LEGGENDO
La bellezza del peccato
Short StoryAntropo non desidera altro che far vivere i propri figli prediletti, gli uomini condannati all'estinzione. Non vuole altro, perché nonostante vivano nel peccato li ama. In fondo, è loro padre. Un giorno, Antropo viene convocato dalla Madre, la divi...