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Sulla mia scrivania c'è sempre una bottiglia da settanta centilitri di Jack Daniel's Gentleman Jack mezza piena o, più spesso, mezza vuota.

Il fatto è che la gente va al cinema, legge i romanzi, guarda le serie tivù e si illude che quella sia la realtà. Così, quando entra nell'ufficio di un investigatore privato, si aspetta di trovarci un uomo di mezza età in maniche di camicia e pantaloni di fustagno, un tipo con le spalle larghe e la mascella quadrata che sembra appena sbozzato nel marmo. Ma quello era mio padre, ossia il V. TUTTO – DETECTIVE che risulta sulla porta a vetri all'ingresso. Io non ho ancora trent'anni e non sembro di marmo ma, mi dicono, di porcellana. Però anch'io metto camicia e pantaloni perché sono comodi, e quando ho ereditato questo posto non ho dovuto cambiare l'intestazione sulla porta perché anch'io sono V. TUTTO. Mi chiamo Valeria Tutto e sono una detective privata.

Qualcuno che ha visto troppi film noir degli anni Trenta potrebbe storcere il naso arrivando qui e trovandoci una ragazza esile coi capelli ramati invece di un duro con la barba malfatta. Se tengo una bottiglia di whisky del Tennessee in bella vista sulla scrivania è per dare ai clienti almeno un cliché al quale aggrapparsi. Non c'è bisogno che sappiano che quello nella bottiglia è tè alla pesca. Non che mi manchino i motivi per bere, ma tra i molti aspetti sui quali non ci tengo a seguire le orme di Victor Tutto c'è la morte per cirrosi epatica. E poi sono più una da Menabrea.

La verità è che essere una donna in questo lavoro è un vantaggio. I detective privati si occupano di omicidi e persone scomparse solo nei libri di Hammett e di Ellroy. Nella vita reale capita di dover raccogliere prove per incastrare un contabile dalle tasche troppo profonde, ma in genere si lavora soprattutto su casi di infedeltà coniugale. Un investigatore privato passa gran parte del suo tempo a pedinare mariti infedeli. Essere donna aiuta a stabilire un clima di fiducia, quando la tua clientela è fatta al novanta per cento da mogli tradite.

Oggi la bottiglia è mezza piena perché la cliente seduta davanti a me si chiama Olivia Del Pozzo Feroldi Martello, l'ultimo cognome è del marito ma gli altri sono suoi. Come diceva mio padre, più sono i cognomi e più è probabile che ti paghino. Dopo che questa tizia mi ha chiamata per fissare un appuntamento ho fatto una rapida ricerca: i Del Pozzo Feroldi sono in circolazione più o meno dall'epoca delle crociate e risultano proprietari di immobili in tutta Europa, in pratica feudatari per i quali il Medioevo non è mai finito. Digitando il loro nome su Google saltano fuori articoli su aste di beneficienza a Monaco, regate in Nuova Zelanda, collezioni d'opere d'arte rinascimentali. A occhio la mia parcella dovrebbe essere in cassaforte.

Olivia Del Pozzo Feroldi è un'ultracinquantenne dai capelli argentati e dall'aria energica ma non particolarmente giovanile. Ha addosso un girocollo di perle, un gessato viola e un paio di Manolo Blahnik del valore approssimativo di novecento euro. Dal modo innaturale in cui tiene la schiena dritta è chiaro che quand'era bambina qualcuno le ha insegnato come ci si siede.

In questo momento siamo io, lei, una matita e un block notes. Prendere appunti a mano mi aiuta a rielaborare gli input.

«Da quanto siete sposati?» chiedo.

«Quasi cinque anni», risponde, «tra un paio di mesi sarà il nostro anniversario». Faccia e voce non lasciano trasparire alcuna emozione, un'altra cosa che ha chiaramente imparato fin da bambina.

La punta di grafite della matita traccia il numero cinque sulla carta. Considerando che questa tizia ha almeno cinquantacinque anni mi aspettavo di più, ma forse sono seconde nozze. «Sono seconde nozze?»

«No. Non sono mai stata sposata prima. Diciamo che quand'ero giovane il matrimonio non era in cima alle mie priorità».

Be', abbiamo già una cosa in comune. «E in questi cinque anni non ha mai notato niente di strano?»

«Solo negli ultimi tempi».

«Tipo?»

«Mio marito ha cominciato a rientrare molto tardi dal lavoro. Anche a notte fonda».

La grafite lascia un tratto leggero e appena intelligibile. «Diceva che suo marito è un imprenditore, giusto? Sarebbe strano se non lavorasse fino a tardi. Qualcos'altro?»

«Da qualche mese non abbiamo più... rapporti intimi».

«Sì, non si offenda ma siamo nello standard delle coppie sposate». Questa è la fase in cui io gioco a fare l'avvocato del diavolo. In realtà non succede quasi mai che una cliente venga da me con in mano qualcosa di concreto, perché se ce l'avesse non le servirebbe venire da me. Di solito quando una donna si rivolge a un detective specializzato in casi di infedeltà coniugale lo fa perché glielo dice l'istinto. E di rado l'istinto femminile si sbaglia in materia di uomini. «Ci rifletta. C'è qualche altra informazione che ritiene di dover condividere? Qualche elemento utile ad avere il quadro completo?»

La Del Pozzo Feroldi esita prima di rispondere. La sua faccia è sempre impassibile, ma la sua voce ha un attimo di cedimento. «Forse non è importante, ma... Mio marito ha ventidue anni meno di me».

Ah.

Stavolta la punta di grafite incide lettere e numeri sulla carta e li evidenzia avvolgendoli in un cerchio. Certo che è importante, cara, e tu lo sai. È il motivo principale per cui sei qui. Hai sposato un uomo molto più giovane di te e adesso hai paura. Per quello che mi dice l'esperienza, fai bene.

«Ok», concludo, «ho sentito abbastanza. Ora, per quanto riguarda la mia tariffa...»

«Il denaro non è un problema». Grande. Se divorzia, me la sposo io. «Le chiedo solo di adottare la massima discrezione, signorina Tutto. Oltre che una faccenda privata, è una questione d'onore. Mi rendo conto che può suonare anacronistico, ma per le famiglie come la mia certe parole hanno ancora un peso».

Poi, alzandosi dalla sedia, aggiunge: «Sa, conoscevo suo padre».

«Davvero?»

«Victor Tutto frequentava la casa dei miei genitori. All'epoca studiavo a Cambridge e non tornavo spesso in Italia, forse l'avrò incrociato due volte. Credo che lei non fosse ancora nata, signorina».

«Mio padre frequentava i suoi genitori? Stava seguendo un caso per conto loro?»

«Non ne ho idea. Ad essere sincera, non parlavo molto con i miei».

La accompagno alla porta.

«A presto, allora» mi dice. «Mi tenga aggiornata».

«La contatterò appena ci saranno delle novità».

«Buone notizie, spero».

Lo spero anch'io, ma temo proprio di no. Quando fai questo lavoro da un po', capisci che queste storie finiscono tutte allo stesso modo.

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