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Giorno uno D.M. (Dopo Martello).

Ieri sera, nello spazio di un respiro, sono scivolata dalla veglia a uno stato di beata incoscienza e completo rilassamento muscolare, quel sonno senza la seccatura dei sogni che soltanto il totale appagamento fisico può darti. Direi che ho dormito come una bambina, se non fosse che nemmeno da bambina dormivo così.

Ora, a fatica, riapro le palpebre su insistenza della luce del mattino e mi ritrovo sola sul lettone della villa, raggomitolata in posizione fetale nell'occhio di un ciclone di lenzuola nere. Sollevo il busto puntellandomi sui gomiti e constato che la tempesta è passata, fuori splende il sole. Scendo dal letto e, barcollando in preda a un doposbornia da dopamina, muovo un passo. Sento qualcosa di piccolo che si sbriciola sotto il mio piede. Guardo giù: il portafoto è caduto dalla cassettiera e il vetro che proteggeva la fotografia di Martello con sua moglie si è fracassato, i pezzi sono sparsi tutt'intorno. Lì a fianco c'è il mio reggiseno. Lo raccolgo, me lo infilo e lo allaccio. Raccolgo anche il portafoto e lo rimetto sulla cassettiera; gli spuntoni di vetro rimasti nella cornice sembrano zanne di una bocca mostruosa che sta per divorare la coppia. Apro uno dei cassetti, è pieno di maglie e camicie da uomo. Prendo una maglietta dei New York Yankees, risarcimento per quella che mi è stata strappata. In cambio ripongo nel cassetto le mie mutandine, piegate con cura. Souvenir de Valerie.

Metto i miei jeans e la maglia degli Yankees, prendo le mie scarpe e, a piedi nudi, esco dalla stanza. Man mano che mi riprendo dalla mia condizione di stordimento, dentro di me affiorano pulsioni contrastanti: voglio vedere subito Milo Martello per assicurarmi che sia vivo e stia bene e il nostro sacrificio, chiamiamolo così, non sia stato inutile, ma non voglio vedere Milo Martello perché so che ieri notte è stata un'eccezione irripetibile e rivederlo servirebbe soltanto a rigirare il coltello nella piaga, ma voglio vedere Milo Martello perché so che quello che c'è stato tra noi ha avuto una sua importanza per entrambi, ma non voglio vedere Milo Martello perché non mi illudo di poter prendere il posto della donna che ha sposato e per la quale era pronto a beccarsi una pallottola e che ha rinunciato senza la minima esitazione a un'eredità multimilionaria per salvargli la vita.

Scendo in salotto e Milo Martello non c'è.

In compenso c'è Olivia. È compostamente seduta sul divano ad angolo, dove ieri ero assai meno elegantemente seduta io. Ha ancora addosso il suo kimono a carpe. La sua mano sinistra regge tra pollice e indice il manico di una tazzina fumante, la destra il relativo piattino.

«Ben svegliata» mi dice. Se il tono è neutro, lei ha l'aria provata. Non è mai stata granché giovanile, ma rispetto a poche ore fa dimostra una decina d'anni di più.

«Milo è uscito», mi informa, mentre vado a sedermi dove ieri era seduta lei, «aveva bisogno di stare da solo. Ha lasciato detto di chiederle se per favore può andarsene prima che lui torni».

Ok. Ci sta. Un taglio netto. Mi ferisce, ma è la cosa migliore.

«Vuole un caffè?» mi domanda Olivia. «O magari due. Avrà bisogno di recuperare energie, dopo ieri notte». Prende un lungo sorso e noto che la tazzina trema in modo appena percettibile. «Ho guardato la registrazione», spiega Olivia, «prima che venisse spedita via mail dovevo sapere se soddisfaceva i requisiti. Be', sembravano decisamente soddisfatti».

Vorrei dire qualcosa. Non posso starmene zitta, ma non posso nemmeno dirle "Scusa se ho scopato con tuo marito e a lui è piaciuto un sacco". Alla fine dico

«Sta bene?»

La muscolatura facciale di Olivia impone agli angoli della bocca di sollevarsi. «Sono stata meglio», risponde, «ma non c'è più nessuna taglia sulla testa di Milo. Il resto possiamo superarlo».

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