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Durante il viaggio di ritorno ho pensato molto ad Arturo.

Ho camminato per mezz'ora su uno stradone polveroso prima che un servizio taxi mi rispondesse al cellulare e dopo un'altra mezz'ora di attesa riuscissi a farmi portare alla stazione più vicina dove ho preso un treno che ci ha messo altre sette ore ad arrivare nella mia città in cui ho aspettato per un'ennesima mezz'ora un autobus di linea che in un'ulteriore mezz'ora mi ha riportata a casa mia. Una fuga lunga, scomoda e soprattutto inutile, non puoi scappare quando la cosa dalla quale stai scappando ce l'hai dentro, puoi solo difenderti. Durante quelle nove ore di odissea, ogni volta che mi ha raggiunta il pensiero urticante di quello che era stato e di quello che non sarebbe stato mai, gli anticorpi del mio inconscio hanno reagito in modo imprevedibile, usando a mo' di scudo e con chiarezza crescente l'immagine di Arturo.

Il caro, vecchio Arturo. Un ragazzo solido, affidabile, sicuramente capace di prendersi un impegno e mantenerlo fino in fondo con serietà. Ha dimostrato oltre ogni ragionevole dubbio di provare dei sentimenti sinceri nei miei confronti, sentimenti che magari al momento io non ricambio con la sua stessa intensità ma volendo potrei lavorarci sopra, e questo non è qualcosa che si possa ignorare come se niente fosse. Credo di essere stata troppo frettolosa nell'escludere l'opzione Arturo dalla mia vita. Ritengo che dovrei dargli una chance. La verità è che all'improvviso essere sola non mi piace più. Dopotutto Arturo vuole me e io, ora che il palazzo delle mie certezze è stato centrato da un missile e ridotto in macerie, ho bisogno di qualcuno come lui, perciò è un'altra di quelle situazioni nelle quali vincono tutti. Più o meno.

«Arturo?» lo chiamo, rientrando nel mio appartamento. Nessuna risposta.

Il salotto è deserto e immerso nelle tenebre, ma in fondo al corridoio la porta accostata della stanza di Arturo, ex stanza dei miei genitori, lascia filtrare una lama di luce.

«Arturo, ti devo parlare» dico, mentre attraverso il corridoio. Sono stanca da morire, ogni volta che stacco un piede dal pavimento per muovere un passo me lo sento di piombo, ma devo affrontare questa discussione con lui stasera. Non voglio svegliarmi nemmeno un'altra singola mattina in un mondo nel quale l'amore esiste e non è una trappola o una fregatura e io non ce l'ho.

«Arturo», annuncio, ad alta voce, «di recente ho pensato tanto a noi due».

Mi fermo di fronte alla porta. Tendo l'orecchio: dall'interno arriva un effetto sonoro di non facile identificazione, una specie di cigolio metallico ripetuto a intervalli regolari.

«Arturo», chiedo, «ci sei?»

Ancora nessuna risposta. Apro la porta.

Due settimane fa sono entrata in camera di Arturo e l'ho sorpreso con le brache calate davanti a un cartone porno giapponese. Oggi, al mio ingresso nella stanza, mi accoglie la medesima immagine di allora, un'accoppiata di tettone perfettamente tonde e scintillanti di sudore che rimbalzano su e giù secondo leggi della fisica che si presumono esclusive dei cartoni animati; solo che questa volta non sono sullo schermo di un computer, bensì riflesse in quella che un tempo era la specchiera di mia madre, e non appartengono a una ragazza a due dimensioni ma a una molto tridimensionale, che sta mettendo alla prova le molle del materasso dei miei mentre monta a pelo le pelvi di Arturo, nudo e supino sotto di lei.

La ragazza mi vede nello specchio. Contestualmente interrompe la sua cavalcata e, senza alcun segno di pudore che non sia passarsi una mano sulla testa per sistemarsi i capelli arruffati, si volta e mi sorride.

«Ciao, Valeria» dice Samantha.

Poco dopo io sono seduta sulla sedia della specchiera e loro due sul letto matrimoniale. Arturo si è infilato gli occhiali, un paio di slip e una vestaglia da camera a scacchi, non ho idea di come sia entrato in suo possesso un indumento del genere ma lo fa sembrare una parodia di Hugh Hefner. Samantha s'è messa le sue mutandine e una T-shirt di Arturo; gli occhi della ragazzina manga sulla maglietta, già sproporzionati in partenza, hanno raggiunto il massimo grado di dilatazione.

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