CAPITOLO 11

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Mi sveglio di soprassalto alle prime luci dell'alba, un brivido mi percorre lungo la schiena dopo che una fonte di calore molto vicina si era allontana. Apro gli occhi quanto basta per rendermi conto che non mi trovo nella mia stanza, ma il sonno non ha ancora abbandonato il mio cervello per permettermi di mettere bene a fuoco.

Dalla finestra filtra una luce fioca; faccio saettare lo sguardo verso il pavimento, dove alcuni vestiti sono sparsi qua e là, i miei vestiti. E i vestiti di un ragazzo.

Jackson.

Ma certo! Abbiamo fatto sesso e mi sono addormentata nel suo letto.

Tutti i ricordi della notte passata iniziano a riaffiorarmi nella mente come un film, e mi si solleva un angolo della bocca nel riviverli. Mi giro di scatto e lo vedo, il viso bellissimo e rilassato.

E' sdraiato di pancia, un ginocchio sollevato all'altezza della vita, un braccio sotto il cuscino e l'altro che gli ricade lungo il fianco. Mi soffermo ad osservarlo per un po', mentre sono intenta a coprirmi il seno ancora nudo con il lenzuolo, sedendomi sul letto.

Il primo istinto sarebbe quello di accarezzargli una guancia, ma qualcosa dentro di me mi dice di non farlo; potrei svegliarlo, ma disturbare il suo sonno beato in questo momento è l'ultima cosa che voglio, perciò mi limito a guardare.

Riempio d'aria i miei polmoni più che posso, poi emetto un sospiro raccogliendo i pensieri, lasciandomi ricadere nuovamente sul letto, di schiena. Chiudo e gli occhi e l'unica cosa che mi passa per la mente è: ho perso la mia verginità.

E ho deciso di farlo proprio con lui.

Il mio cervello non ha il tempo di formulare nient'altro, perchè all'improvviso sento Jackson che solleva le braccia sopra la sua testa e si stiracchia, poi si passa entrambe le mani sulla faccia e sgrana gli occhi, incupendo il suo sguardo, come se a inquietarlo fosse la mia presenza.

<<Sei ancora qui?>> dice con voce impastata dal sonno, senza curarsi minimamente di guardarmi in faccia.

<<Mi sono appena svegliata..>> riesco a dire, profondamente imbarazzata. Un po', per il fatto che non porto i vestiti addosso, un po' per il suo tono, e mi metto seduta.

<<Devi andartene, non puoi stare qui. Vado a fare una doccia, quando esco dal bagno non voglio trovarti>> ribatte secco mentre si alza dandomi le spalle e si infila i boxer che recupera dal pavimento.

Sono scossa, non capisco perchè mi stia riservando questo tono rude, brusco, mi sento umiliata nel profondo. Mi sono concessa a lui, certo per lui è stata solo una scopata, ma per me è stato importante.

Tengo lo sguardo basso fissandomi le mani in grembo e senza dire nulla aspetto che si diriga in bagno, poi prendo velocemente la mia roba, mi vesto e con le lacrime agli occhi prendo la porta sbattendola con forza alle mie spalle.

Mi ha usata, mi sento usata, come un giocattolo, e poi buttato via subito dopo.

Sono fortunata perchè, essendo molto presto, non incrocio nessuno in corridoio, nè nel salotto della confraternita, perciò appena metto piede fuori scoppio in lacrime. Ma non posso fargliene una colpa, sapevo dall'inizio a cosa andavo incontro, è colpa mia, gli ho permesso di venire a letto con me e poi di ferirmi.

Decido di fare due passi per permettere al mio corpo di calmarsi, se dovessi rientrare a casa in questo stato i miei farebbero mille domande, soprattutto per il fatto che ho passato la notte fuori senza avvisare.

Il mio corpo trema, il viso è rigato di lacrime, ma i singhiozzi hanno smesso di venir fuori come un treno impazzito e ad ogni passo che faccio, allento un po' di più la pressione delle unghie sulla carne dei palmi delle mie mani; senza rendermene conto, avevo i pugni serrati talmente forte che le nocche si erano sbiancate.

Rabbia, frustrazione, questi erano i sentimenti che aleggiavano la mia mente. Profondamente ferita, umiliata, usata, ed era tutta colpa mia.

Ho dato in pasto la mia virtù a qualcuno che non si cura di nessuno, a cui non importa di nient'altro se non di se stesso, che non mi ha nemmeno rivolto un accenno di sguardo per dirmi di andare via.

Codardo.

Sfilo il telefono dalla tasca dei jeans e invio un messaggio ad Abby, chiedendole di poter andare a casa sua. Ho bisogno di un abbraccio della mia migliore amica, ho bisogno che qualcuno mi dica che andrà tutto bene e il mio cuore non è semplicemente andato in mille pezzi.

Mi risponde subito

-Ti aspetto.

Mi dirigo a passo svelto a casa sua, e lei è lì che mi aspetta sul patio, seduta sul dondolo, avvolta da una coperta e una tazza di caffè fumante tra le mani, che mi porge appena la raggiungo, scattando in piedi appena mi piazzo di fronte a lei.

Nessuno mi conosce meglio di lei.

Mi accarezza una guancia con fare materno asciugandomi le lacrime che continuano a scendere senza sosta, e mi invita ad entrare, rassicurandomi del fatto che tutti ancora dormano.

Saliamo di sopra, in camera sua, si siede sul letto e mi fa segno con la mano di sedermi accanto a lei e io, come una bambina smarrita, mi accoccolo accanto a lei e lascio che di nuovo i singhiozzi e i tremori mi pervadano, mentre lei mi accarezza la testa.


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