Una giornata un po' diversa

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Un altro giorno di scuola, la stessa tiritera ogni mattina:
Il padre la svegliava; lei prendeva i vestiti preparati la sera prima dalla scrivania; si chiudeva in bagno e ne usciva un'oretta dopo. Il trucco, che prima era sempre perfetto, impeccabile e appariscente, era da un pezzo che ormai sembrava solo uno schizzo di pittura finito senza alcun criterio artistico su una tela bianca. Non usava alcun tipo di rossetto, lei che non usciva mai di casa senza labbra rosso fuoco che lasciavano macchie ovunque.
Una volta pronta, si posizionava sul sediolino dell'auto e il padre l'accompagnava a scuola. Una traversata piena di domande inutili, a cui Victoria non voleva rispondere, sempre le stesse. Lei guardava la strada, sempre la stessa, seguendo attentamente ogni dettaglio, tutti i vicoli che da casa sua conducevano alla strada principale, le varie svolte per arrivare a scuola, il solito traffico tipico di Napoli, i rumori dei clacson...
Arrivata a scuola, l'edificio grigio le dava un senso di sconforto, e lei, armandosi della sua maschera, entrava, saliva le scale, sempre le stesse, e si sedeva nel suo banco, sempre lo stesso, senza salutare nessuno. I visi di quelli che da viva erano i suoi migliori amici le davano un po' di conforto.
C'erano gli occhi verdi accesi di Elsa, in cui era tattili lo sconforto che aveva nel sentirsi importante verso la situazione dell'amica e che contemporaneamente dicevano: "ci sono passata anche io, so cosa stai provando, sono qui per te". Gli occhi neri di Violetta che sentivano la mancanza del suo sorriso. Le mani di Dario, che cercavano sempre un contatto, come se indirettamente volessero invitarla a lasciarsi tutto alle spalle e a ricominciare a ridere. Il sorriso dolce e sfrontato di Roxy che era sempre li a infondere tenerezza e i riccioli di Anna, che non essendo mai riuscita a starle davvero vicina, la guardavano rimpiangendola da lontano. Infine c'era Natasha, la più importante per lei, quella che più stava soffrendo per la sua situazione, quella a cui era più legata e però quella che meno riusciva a starle accanto a causa della diversa scuola.
Ai loro messaggi non rispondeva mai, ma nessuno si offendeva più per questo, avevano capito che in quel momento a lei, non servivano parole inutili, ma solo presente silenziose che le stavano vicino ma alla giusta distanza. Perché è così che lei si sentiva, distante, come se una boccia di vetro l'avesse intrappolata, e vedeva il resto del mondo vivere, mentre lei era lì, ferma, che osservava immobile senza poter fuggire via.
Si sentiva in colpa per il clima uggioso che stava facendo vivere a tutti, ma non sapeva come fare per cambiare tutto questo, e perciò, stava ancora peggio.

Tutto proseguiva con la stessa monotonia insostenibile di sempre, quando ad un tratto, all'ultima ora, mentre parole in una lingua arcana e sconosciuta, e grafici, rette, numeri e parametri le ronzavano attorno senza toccarla come un uragano, il display del suo cellulare si illuminò.
Ultimamente non succedeva più. Lesse il nome sullo schermo.
Samuel.
Era la risposta che stava aspettando!

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