Capitolo primo: il ponte

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Due del mattino. La tipica brezza notturna dei primi di gennaio mi arrossiva le guance. Il gelido tocco delle mie mani sul metallo della ringhiera sembrava quasi trapassarmi le dita. Era giunto il momento. Tirai su con il naso e guardai sotto: ad accogliermi il vuoto, oscurato dal nero della notte che si era mescolato con le lievi onde del fiume e che ai miei occhi poco lucidi non parve che l'utopia assoluta.

<<Finalmente>> sussurrai in una sorta di gemito strozzato. Alzai il mento al cielo nuvoloso e chiudetti gli occhi lentamente. Lasciai che le lacrime di Dio mi colpissero sul viso e si mescolassero alle mie. L'ultima pioggia a bagnare il mio corpo. I miei ultimi respiri. Dovetti solo arrampicarmi. E tutto sarebbe finito. Inspirai con le ultime forze possedute in corpo, quasi cercassi di incamerare più aria possibile per il dopo, pur non sapendo cosa mi avrebbe riservato il destino dall'altra parte. Comunque l'avrei scoperto a breve. Alzai la gamba sinistra, tenendomi fermo e saldo con le mani stanche e tremanti. Un'altra leggera spinta ed entrambi i piedi toccavano la parte esterna della pietra incosciente del ponte. Il lento respiro si trasformò in un affanno intenso e massacrante. La mia testa non smise di mandarmi segnali per cessare tutto questo. Non volevo ascoltarla.

Non volevo più cercare di sopravvivere.

Mi immersi a ripensare agli ultimi momenti della mia vita, in cerca di qualcosa che mi avrebbe salvato, o di qualcosa che mi avrebbe dato la spinta definitiva per buttarmi, ma non trovai niente. Era come se avessi dimenticato d'un tratto di tutto quello che avevo vissuto, come se fosse già in atto il ripristino della mia anima. Stavo già morendo. Stavo morendo in modo cosciente.

Un forte rumore di passi in lontananza tentò di assordarmi, ma ignorai la cosa e incominciai a lasciar andare la presa. Dito dopo dito sentivo progressivamente perdere il contatto con la realtà. Era fatta. Stavo cadendo.

Mi ero sempre chiesto come sarebbe stato, morire

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Mi ero sempre chiesto come sarebbe stato, morire. La parte più ammaccata della mia testa era convinta che avrei toccato la pace con un dito, che avrei potuto ascoltare il silenzio dell'universo dentro di me, fluttuando in un mare di niente. Quel niente che non ti strema, che non ti annoia, ma che per quanto tu sia morto, ti avrebbe fatto sentire vivo.  Questa idea si era così orribilmente radicata in ogni mia nervatura, da avermi spinto alla stregua di chi cerca con disperazione la felicità. Vedevo morte e felicità allo stesso modo. Quasi fossero l'uno il sinonimo dell'altro. 

Quasi si sfiorassero l'un l'altro, e si completassero a vicenda. 

Ero convinto che una volta toccate le gelide acque di questo fiume, gli ultimi strascichi del mio inutile istinto di sopravvivenza si sarebbero attivati per cercare quantomeno di non farmi ingoiare ingenti quantità d'acqua, invece non sentì nulla.

Non sentì la sensazione di bagnato sui vestiti, la mancanza di fiato o la perdita di conoscenza.

Ero morto?

I miei occhi si spalancarono di colpo. 

Di fronte a me non c'era che la stessa altezza di prima, lo stesso panorama di prima, lo stesso buio di prima, a differenza di una cosa.

Quell' improvviso calore che stava avvolgendo il contrastante frigido del mio corpo. Quella delicata ma forte stretta che mi teneva per il petto. Ancor prima di ritrovarmi a trenta gradi rispetto la balaustra venni immediatamente spinto verso la parte opposta. Tentai di divincolarmi dalla strana presa, ma sembrava che la mia carne si rifiutasse di collaborare con la mente e finii per ritornare sul lato della salvezza. Sentivo con chiarezza i polpacci scivolare sulle gocce della ringhiera, graffiandosi sul poliestere dei miei pantaloni, e le folate di aria incestuosa che si facevano strada dentro le aperture inferiori dei cargo, rabbrividendomi.  Riuscii a percepire il piccolo corpo femminile dietro di me cercare di dare le ultime tirate con tutte le sue forze, inciampando su ste stesso, tanto da farmi quasi cadere giù, in acqua. I suoi singhiozzi strozzati dalla fatica mi penetravano le orecchie, mescolandosi tra le tempie. Stava succedendo tutto così in fretta. Non capii più niente.

Non appena toccai la solidità le mie gambe, rimaste forti e stabili per tutto quel tempo, cedettero e caddi. Non a terra, però. Su quella persona. Una persona il cui pianto sentii smuovermi il cuore frammentato, il cui respiro sentii compensare il mio, stremato. Le mani che qualche secondo prima mi reggevano non lasciarono la presa, anzi. Una di queste mi tenne per il fianco, quasi avesse paura di lasciarlo andare, mentre l'altra si appoggiò tremante sul mio capo. Cercai di alzarmi, confuso, ma non me lo permise. I nostri corpi bagnati dalla pioggia, congelati dal cemento, intrecciati dagli arti, rimasero incollati per qualche altro secondo. Secondi che diventarono minuti e minuti. 

Il silenzio si spezzò. <<mi spieghi perchè!? Perché!?>> mugolò, con voce increspata dalla presunta disperazione. 

Intanto un fulmine divagò nel cielo e il rumore dello scoppio accompagnò le sue parole in confronto così silenziose. Fissavo il vuoto bagnato di fronte a me, e pensai che fosse la voce più bella che avessi mai sentito. Prese largo tra le mie membra come una nuvola raccolta dal cielo poco terso sopra noi, e ogni suo continuo "perchè" infiammava il mio corpo gelido, entrandovi in un'eco infinito. Volevo tanto risponderle, dirle che avrebbe dovuto lasciarmi morire, eppure l'unica risposta che riuscii a darle, fu il primo pianto liberatorio di una vita. Lasciai andare i miei settanta chili su di lei, incurante di farle male o meno, e piansi.

Non so perchè, ma piansi. Per la prima volta, piansi. 

Mi ero appena reso conto, che qualcuno si era offerto di salvarmi la vita. Sacrificando quasi la sua. Per me.

Pensavo si sarebbe lamentata delle lagne di un uomo mezzo adulto schiaffate in viso suo, invece, con mia somma sorpresa, mi strinse ancora più forte. Attorcigliò le gambe attorno alle mie natiche come fosse un'azione istintiva, e continuò a mormorarmi parole di conforto. 

<<mi dispiace così tanto>> tentò di dire. Mi ritrovai a spingere le braccia contro le dita inumidite dalla pioggia caduta, e mi ressi a fatica sui gomiti,  lasciando ancora che l'estranea mi toccasse in quel modo così spudorato. La sua mano si spostò dal capo alla nuca e dalla nuca ritornò al capo, creando un circolo vizioso che trovai estremamente confortante. Non riuscivo a smettere di piangere. Le mie lacrime cadevano sul suo viso rendendolo più bagnato di quanto già fosse, e rimbalzavano contro la sua guancia rinsecchita dalla magrezza, finendo per attimi fugaci in aria e dandomi l'impressione di potermici specchiare. Vedevo un uomo debole, affranto, uno sguardo reale ad una realtà non così vera. 

Mi resi conto di quanto fossi vulnerabile.

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