Io ed Elaine ci trovammo immersi tra persone del più alto e del più basso rango sociale, di fronte all'ingresso del Fairmont Olympic Hotel di Seattle. L'imponenza dell'edificio era tale da zittire le menti più rumorose e accendere le fotocamere più costose.
Avanzammo con eleganza e decisione all'insegna dell'inaugurazione del "The old cancer" project.
L'esclusivo abito nero di mia sorella scivolava in maniera impeccabile sul tappeto rosso e accompagnava con graziosità e appunto il colore dei capelli abboccolati. Il tessuto di pizzo dei lunghi guanti era divino. Cercai di concentrarmi su quanto fosse bella, e su quanto fossi fiero di lei e del successo che la sua boutique d'abiti firmati "Saint family" stava ottenendo. Purtroppo, ci riuscii poco.
Sia chiaro, diedi magnificamente a nascondere che non ero affatto pronto a vivere quel momento. Tuttavia, per quanto fossi interessato e deciso a dare avvio alle operazioni di ricerca, il mio cervello non trovò che distrazioni su distrazioni e finii per procrastinare e rimandare il dovere. Predilessi il dispiacere, ecco tutto.
Strinsi un paio di mani, ascoltai un paio di ringraziamenti, e come se un mio lontano pensiero fosse stato udito, un foglietto mi scivolò sotto il naso.
<<A breve la gente si aspetterà un discorso>> mi sussurrò Elaine con nonchalance, ricambiando saluti come se nulla fosse. Annuii con la testa, pronto a leggere parole che non mi ero preparato, e a confidare nelle capacità interloquiali di qualcun altro che non fossi io.
Ebbene il momento giunse, e il palco mi attese. Deglutii un paio di volte, guardai la folla d'élite e accennai a un sorriso orgoglioso e fiero.
Posizionai il foglietto sul leggio e lo schiusi davanti a tutti in seguito ad un lungo applauso.
Ero pronto a partire, ma non appena vi posai gli occhi il mondo mi crollò addosso.
Lessi: "quello è il cotone idrofilo".
Cercai di incrociare gli occhi di Elaine, ma come alzai il viso, mi ritrovai immerso nel vuoto. Attorno a me non vi era nulla che non fosse il buio più totale. Girai il viso a destra e sinistra, forse mossi qualche passo in ambo le direzioni. Eppure mi sembrava di essere sempre fermo, immobile. Le orecchie fischiavano, il cuore palpitava. Sbattei le palpebre con decisione e lentezza, sperando di trovare un mero fascio di luce, ma niente.
Ero in preda al panico.
<<Sig. Saint, Sig. Saint!>> udii all'improvviso.
Tutto d'un tratto tornò com'era. Solo che...gli sguardi delle persone si erano fatti preoccupati, il silenzio tombale si era creato in sala, e la mia fronte gocciolava.
Mai come allora mi decisi a finire tutto il prima possibile. Così mi schiarii la voce, finsi di aver avuto un momento di smarrimento e mi scusai con tutto il decoro e il portamento rimastomi. Lessi cos'era scritto sul biglietto, e lo lessi con sicurezza e forza. Le persone si distrassero rapidamente da ciò che successe qualche attimo prima, e mi ascoltarono con vero interesse.
<< Buona sera signore e signori, è con mio sommo piacere che vi do il benvenuto a questa splendida serata in occasione dell'inaugurazione del grande progetto "The old cancer", in associazione con il Seattle Grace Mercy West Hospital e la Washington University. Noi della ES abbiamo deciso con orgoglio di finanziare le ricerche necessarie a trovare una soluzione definitiva per i pazienti affetti dai tumori ad oggi considerati incurabili. Con l'aiuto di eccelse equipe formate da professionisti provenienti da ogni parte di questa terra, ci impegneremo ad assicurare un futuro lungo e gioioso per coloro a cui è sempre stato dato nient'altro che il buio. Daremo solidità alle loro speranze, daremo sollievo ai loro dispiaceri, e sopratutto, daremo il massimo. Grazie.>>
Forti acclamazioni inondarono le pareti e grida di approvazione ed entusiasmo investirono l'animo generale. Di lì in poi, fu tutto molto più semplice.
La serata trascorse di fatto in un battibaleno, e così la baraonda di persone venute a congratularsi per la mia generosità e audacia.
Ignorai la sensazione di smarrimento che si insidiò in me, e mi costrinsi a godermi il resto della giornata in compagnia. Sorseggiai un paio di martini, addirittura risi.
Elaine distraeva il mio sguardo facendo avanti e indietro per la sala, e sentirla scambiare pettegolezzi e dare sfogo all'immensa parlantina di cui predisponeva mi divertì quanto bastasse per proseguire con i festeggiamenti.
Eppure, una parte di me era ancora marcita da prima, e mi annebbiava un poco la vista. Tentai, oh se tentai, di ignorarlo, ma mi venne impossibile. Cercavo onde luminose e nere, abiti bianchi leggiadri e fugaci, occhi color caramello. Nulla.
Mai come in quel momento desiderai vederla, distrarmi per davvero dai fardelli della mente concedendomi un riposo che dentro di me speravo fosse meritato. Avevo bisogno di Jane come un figlio ha bisogno della propria madre. Essere accudito, consolato, non acclamato, non giudicato.
Volevo sentirmi bambino, non adulto.
Il respiro incominciò a mancarmi, così mi presi un paio di minuti per uscire e cambiare aria.
Varcai la soglia d'ingresso e il freddo di febbraio investì il viso colorandomi le guance. Feci un paio di respiri profondi ed apprezzai il silenzio che l'ambiente circostante mi aveva riservato. Mi sentivo più me stesso immerso nell'oblio che in mezzo ad altri cuori pulsanti e non seppi come fare a scacciare via questa cosa.
Non mi resi mai conto di quanto grandi si fossero fatti i miei capricci, fino a che uno stupido pacco con uno stupido biglietto furono spediti nel mio stupido ufficio. Odiai tutto ciò. Lo odiai veramente. Ma più di ogni altra cosa, odiavo me stesso. Per essermi permesso di compiere un gesto tanto estremo da richiedere l'intervento di un'altra persona. Odiavo me stesso per aver scelto quel dannato ponte tra tutti i ponti che Seattle poteva offrire. Per averci messo tanto a cadere. Per essermi alzato dalla pozza di pioggia e aver seguito un' estranea in casa sua, aver visto le sue tele, i libri posativi sotto, il suo corpo sanguinante, la sua mente unica.
Sospirai.
Voltai il viso verso la festa, dubbioso sul rientrare o meno. Fissai per un attimo le vetrate, che davano a visi contenti, a speranze fluttuanti e calici ricolmi. Ero geloso della felicità che ero stato in grado di donare ad altre persone. Perchè volevo che tale felicità fosse stata donata a me. Lo desideravo come non mai.
<<Ethan...>> udii.
Alzai gli occhi.
Di fronte a me, avevo Jane.