Capitolo quattro

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Il rumore dei sassolini riecheggiò contro le ruote della mia auto, nel silenzio di un bosco docile ma profondo, e avvisò la penombra dell'arrivo di un'ospite non atteso. I miei polpastrelli tremavano a contatto con il volante, trascinati dai movimenti dei gomiti ruotanti. Ero deciso ad andare fino in fondo.

Il bisogno di un contatto più unico che raro, che per quanto fugace mi trapanò il cervello e mi spinse in un tornado tempestato da desideri puri ed impuri, si fece insopportabile. Jane non mi rapì il cuore. Jane lo sfiorò appena. Ma quel brivido dettato dal suo tocco, a momenti fece cessare il mio battito. E il motivo, ancora non mi fu chiaro. 

Cercavo delle conferme, ostentavo i miei capricci. 

Il vialetto si era fatto fitto fitto di rami e foglie, le piante sembravano aver risucchiato ogni angolo di quel posto. Mi venne naturale chiedermi: "e Jane?".

La mia scarpa toccò terra, e il mio corpo superò la portiera. Quando iniziai ad incamminarmi, tutti i ricordi tornarono a galla come un crepuscolo angosciante. Poco più in là ci sarebbe stato il ponte ove tutto si sarebbe concluso, poco più in là qualcosa della mia vita sarebbe cambiato. Un minuscolo e insensato puntino, che in cinque anni sarebbe cresciuto esponenzialmente, diventando una sorta di bolla. 

Lo superai ad occhi bassi. Mi fissai sulle punte delle scarpe e la sensazione di bagnato sulle cosce si fece più tattile. Le dita della mano sinistra cercavano nell'aria una carezza. La parte più razionale di me si fece guidare dai ricordi fino a che trovai la famigerata casetta di Jane. Non piovve, ma il profumo del terreno umido era così saldamente ancorato nel mio cervello che mi sembrò di poterlo annusare ancora. Si mischiò al marciume dello stucco, così penetrante nelle narici da portarmi a coprire il naso. 

Mi sembrò di essere di fronte ad un posto abbandonato. Se qualche anno prima le pareti, per quant' appena si reggessero, effondevano un non so che di riguardo, in quel momento parevano sostenersi a stento. Nessun bagliore illuminò le finestre, nessun odore uscì dalle fessure dei muri. Quella casa, era disabitata da un bel po'.

Mi avvicinai comunque alla porta d'ingresso, che trovai schiusa quanto bastò per dare un'occhiata dentro. Nulla di apparentemente vivo o curato trovai. Solo la penombra. Posai il palmo sull'umido legno e spinsi un po' in avanti, curioso di entrare. Il legno marcio stridulava sotto i piedi tanto da sembrare delle grida provenienti da un luogo lontano, e il tanfo di muffa era così forte da far venire i capogiri. Ciottoli impolverati, insetti, briciole incrostate di terreno, qualche carta di merendine gettate di qua e là si costellavano sotto il mio sguardo. Tirai fuori il cellulare per fare un po' di luce, e scritte di ogni genere comparvero sui muri. "Claire ti amo".."Chi legge è uno scemo"..."il diavolo è dietro di te" e chi più ne ha più ne metta.  I mobili erano completamente scomparsi, e quei pochi rimasugli della vita di Jane all'interno della casa furono spazzati via dal vandalismo. Girai gli occhi, e un po' il cuore mi si spezzò.

Il cavalletto che era collocato all'angolo del salotto sostava in piedi come l'unico superstite di una grande e catastrofica guerra. Le gambe fragili e sottili, appena appena si reggevano in mezzo ai resti di pagine torturate di libri forse letti forse no. Ne presi in mano una, di cui riuscii a leggerne appena una frase.

"Nel mondo quantistico, non riusciamo a prevedere con certezza cosa succederà, non perchè le nostre teorie non siano abbastanza buone, o perchè non abbiamo sufficienti informazioni, ma perchè la natura opera in maniera intrinsecamente..."

La fissai e rigirai tra le mani per un po', riflettendo su che parola avrebbe potuto terminarla in maniera sensata. Ma non ci persi troppo tempo, perchè divagando con lo sguardo mi ritrovai immediatamente rapito da un dettaglio che mi fece esplodere il cuore di un vuoto mai provato fino a quel momento. Un tuffo nel petto che mi fece rizzare i peli delle braccia, che mi fece quasi digrignare i denti.

La tela che il cavalletto sorreggeva. Non avevo minimamente prestato attenzione ad essa. Eppure mi bastò un attimo. Soffermandomi sugli spigoli mi accorsi che uno di questi era strato stralciato, lasciando alla vista solo il supporto di legno appresso, solitamente nascosto dal bianco. E con un movimento che mai fu per me tanto istintivo, tirai dalla tasca posteriore del pantalone il famigerato biglietto grezzo. "Quello è il cotone idrofilo" lessi per la millesima volta. Lo innalzai poi in aria, avvicinandolo proprio all'angolo mancante della tela. Un cedimento mi colpì, quando notai che combaciavano perfettamente. 

Provai una forte sensazione di rabbia. Una rabbia particolare, dettata dalla paura, dallo sconforto, dal disappunto. Una rabbia che difficilmente avrei potuto scordare.

Forse perchè un abisso di consapevolezza, che stava affiorando sempre di più con ardore, mi accusò di essere in parte colpevole. Di non aver potuto, voluto fare nulla, per evitare che quel posto si rovinasse tanto, e che lei se ne andasse, per una ragione o per l'altra. I miei occhi strascicavano da un lato all'altra della stanza in quello che fu uno degli attacchi di panico più intensi mai provati. La mia mente s'annebbiò tanto da ritrovarmi crollato a terra, circondato da mille paranoie e da peripezie fittizie così assordanti d'avermi ferito l'animo, d'avermi trapassato la fronte. Un dolore atroce nel petto incalzò testardo. Mi portai la mano sinistra sullo sterno.

Mi ero sempre chiesto come sarebbe stato, morire, e quella notte, in quel momento, in quell'attimo, ogni idea che mi ero fatto svitò via come un chiodo deteriorato e lasciò un buco della grandezza di un universo, aprirsi dentro di me. Realizzai che morte e felicità non potevano più essere sinonimo l'uno dell'altro. Perché la sola idea di aver perso Jane per sempre mi fece morire in un modo assai diverso da come avrei mai immaginato. Mi sentii perso, prostrato a un rodimento che sentivo consumarmi dentro.

Ansimai come un mulo costretto a superare strade infinite, gravato da un peso duro come una montagna, pungente come la sua vetta, instabile come la sua terra.

E l'unica cosa che la mia mente si capacitò di pensare, fu:

"Jane, dove cazzo sei finita."

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