Nè quella mattina, né le restanti della settimana, mi recai al lavoro.
Ignorai le decine di chiamate di Robert, e le altrettante decine di Susan perchè non mi importava. Il mio corpo si rifiutava di ascoltare suono che fosse diverso dal silenzio provato in quel momento. Mormorò nella mia testa note mute così chiassose da essersi scolpite come conche nel marmo e ancora non riuscivo a riprendermi dal trauma di una tal franca illusione.
Il vuoto mi opprimeva, profondo quanto budella strappate direttamente dall'addome. E non mi fece mangiare. Non mi fece dormire, non mi fece vivere per davvero. Pensai, quanto tempo era, che non vivevo per davvero?
Mi ritrovai immerso in una realtà fumosa che pativo in un continuo e temporaneo angosciare qua e là nella giornata, e mi costringeva a letto. Non sapevo come sentirmi, non sapevo come avrei giustificato tutto ciò alle persone che mi circondavano. Non sapevo come sarei salito sull'auto.
Come un assassino tornato sulla scena del delitto. Un delitto che non voleva compiere.
L'improvviso bussare della porta d'ingresso catturò appena la mia attenzione, e mi costrinsi con fatica ad andare ad aprire. Fu più la rada speranza di realizzare i miei crucci vedendo una chioma bruna, la vera e propria costrizione. Ma quando aprii e mi trovai il biondo cenere di Elaine, tornai nel limbo di sempre.
Mi feci leggermente da parte, lasciando lo spazio necessario per entrare ad una donna che seppi per certo non sarebbe rimasta dietro la soglia.
<<Ethan? Ma come sei conciato! E questo odore di chiuso...ahh! Apri un po' le finestre, per l'amor di Dio!>>
Elaine era una donna singolare, assai loquace e poco riservata. Il numero delle parole che uscivano dalle sue labbra, superava di gran lunga la media nazionale. Forse anche quella mondiale. E con ogni mio stupore, spesso mi ritrovavo piacevolmente intrattenuto da ciò che raccontava. Non interessato, ma piacevolmente intrattenuto.
I suoi tacchi risuonavano sulle mattonelle come piccoli tamburi di pietra, mentre faceva qua in là per le stanze via via sempre più illuminate.
Io però, non li volevo, i raggi del sole. Ce l'avevo con loro per aver contribuito sistematicamente all'inganno di qualche giorno prima. Non dovevano cambiare sfumatura ai suoi occhi, non dovevano prostrarmi il suo corpo nudo. Non volevo nulla di tutto ciò. O forse si, ed era per quello che ce l'avevo con loro.
Elaine mi venne contro un po' troppo energica, con un completo blu navy sorretto sugli avambracci, una camicia bianca e una cravatta nera. Un paio di boxer, un paio di calzini, e una canottiera.
<<Tieni, vai a farti una doccia. Non posso permettere che la famiglia Saint risenta delle tue solite ricadute. Stasera c'è l'inaugurazione del progetto e tu devi essere presente. Robert mi ha chiamata un milione di volte, dicendo che non rispondevi. Anche la mamma è preoccupata. Quindi sono venuta a salvarti!>>
"Oh, cara sorellina. C'è solo un modo per essere salvato" pensai. Ma non dissi.
L'occhio mi sfuggì repentino sul calendario da muro, e mi resi effettivamente conto che era il primo di febbraio.
Così sospirai, e feci quella dannata doccia. Mi misi quel dannato completo blu navy, e ritornai in quel dannato salotto.
<<Ora sì che ragioniamo!>> sentii farneticare dietro me.
Il riflesso di Elaine si mostrava appena alle mie spalle, mentre ritoccavo la cravatta come mio padre mi insegnò e come nonno insegnò a mio padre e come il bisnonno insegnò a mio nonno.
Me la avvolsi al collo, e incrociai gamba e gambetta desiderando fosse un cappio. Feci girare la gamba sotto la gambetta come se stessi tirando il nodo della corda, e la feci ripassare sopra come se in quel modo avessi il mancato respiro assicurato. Sfortunatamente, ancora respiravo mentre tiravo attraverso l'anello che si era formato, e ancora respiravo mentre spingevo verso l'alto il nodo frontale.
<<Ti dona.>> mormorò lei.
"La morte?" Voletti chiederle.
Ma tacqui.