Perle di sudore ghermivano la sua liscia pelle, sulle tempie vi facevano nido, sulla carne febbricitante campo di battaglia. Fugace il suo sguardo, rigido il corpo. Tremava sol dentro, tremava l'animo e il cuore suo urlante. Affogava, gemeva, piangeva quel che di lui sparire voleva. Ma infilzava i suoi passi sulla pietra, con ardore e crescente terrore. Ne uscì coi palmi a sigillare la bocca, pallido in viso e riarsa la gola.
L'orologio a polso di Aleksandar segnava appena le quattro e ventisette del mattino, eppure il ragazzo pregava segretamente che qualcuno avesse il buon senso di regalargli un cappio e concedergli il lusso di porre fine quantomeno all'emicrania che gli faceva vedere doppio ad ogni sbattere di ciglia.
La sua ronda notturna era iniziata due ore addietro, un lasso di tempo in cui erano volati insulti, cordiali minacce, matite che giacevano ormai al suolo e casualmente trovatesi sull'orbita di qualche bulbo oculare, pronto ad essere cavato senza troppi riguardi. Dal canto suo, Aleksandar ne aveva abilmente evitate una manciata senza mai scomporsi, lo sguardo febbrile nonostante il velo di stanchezza che lo offuscava da interminabili minuti a questa parte.
Teneva la mano a coppa sul mento striato da un leggero accenno di barba, la chioma scura scarmigliata e la camicia, ormai spiegazzata, a fasciargli il corpo scomposto e abbandonato in una morbida poltrona di broccato. Si inumidì le lebbra mentre attorno a lui le voci si alzarono di un'ottava. Non che ciò lo scalfisse granché: era il pensiero del compito che gli spettava al termine di quel concerto cui era costretto ad assistere a fargli correre sulla spina dorsale un brivido viscido e tanto familiare da farlo vibrare.
Era consuetudine smuovere l'aria della sala Congressi quando al Quartier Generale le lamentele si facevano più decise e insistenti del solito. Alle riunioni erano chiamati in causa i rappresentanti per ogni ala dei sotterranei, direttori e corpo docenti con tanto di elementi patogeni dagli ideali conservatori. Non c'era da stupirsi, dunque, se banali discussioni sfociavano in accuse melodrammatiche e occhiate cariche d'astio, con conseguente deragliamento della questione sulla quale erano effettivamente chiamati ad esprimersi .
Aleksandar, che aveva imparato col tempo a tenere a freno la lingua e cercare confronto solo con chi fosse disposto all'ascolto, era messo a dura prova in frangenti come quelli, che vedevano Havilard alla sua destra e la Laurent a seguito. Direttrice fresca di studi, voce trillante e occhi come piccoli bottoni lucenti, era fondamentalmente convinta di avere in mano le redini della ragione in ogni discussione, motivo per cui si sentiva autorizzata ad allungare le dita in cause che la sovrastavano irrefutabilmente.
Furono i suoi strepiti sconnessi a dare il benvenuto ad Aleksandar quella notte e, successivamente, alla sua emicrania fulminante. Quando la questione si faceva più spinosa del semplice regolare l'operato del dipartimento rifornimenti per assicurare tre pasti giornalieri, la ventottenne pestava i piedi in consiglio senza remore, mentre più d'un membro pregava il cielo le saltassero le coronarie una volta per tutte.
Il nodo al pettine, quel giorno, non era favola nuova.
Un guizzo sulla guancia di Aleksandar tradì l'inquietudine che sentiva crescere dentro al pensiero, germoglio nello stomaco e rampicante fra le costole, fino alla gola, fino a serrarla in una morsa dolorosa.
Aveva i pantaloni sporchi d'erba e arrotolati fino al ginocchio, i piedi nudi sull'asfalto rovente del ponte e sotto di lui lo Yantra, che gorgogliava e riluceva nei punti in cui cocci di sole bucavano la coltre di nubi estive. Pensava a convincere suo padre per i tuffi di rito nonostante il correre impetuoso dell'acqua verso valle, rinvigorita dalle lunghe piogge di quei giorni. Vedeva sua madre opporsi alle sue parole, il cuore palpitante di premura e il padre sorridergli, annuire al suo capriccio come ad altri prima ancora.
La brezza tiepida del pomeriggio soffiava lieve sul suo viso, arruffandogli la chioma. Ivan chiamava il suo nome, agitava le braccia dalla sponda del fiume che lo bagnava fino alle caviglie.
Ma presto a quella voce se ne sovrappose un'altra, meno lontana e ruvida come una vecchia vestaglia.
La strada verso casa fu, in quel momento, la più lunga che avesse mai percorso. Non facevano rumore i suoi passi scalzi, seguiti a distanza da altri, più adulti e decisi dei suoi.
Varcò l'uscio della porta con insolita calma e nonostante avesse desiderato in quell'istante il conforto del profumo della madre e delle sue braccia esili stringerlo sicure, non mosse muscolo.
Voleva sapere, voleva capire.
Di tutte le parole che gli avevano rovesciato addosso come nuvole cariche di pioggia, molte erano scivolate via prima che potesse affondarvi le dita. Tremava fra le loro mani carezzevoli e le spingeva via, sovrastato dai loro sguardi pieni d'angoscia. Fece sue le loro paure, indietreggiò nel vederli piangere e sussurrare al contempo che sarebbe andato tutto bene.
Comprese solo che era stato scelto, che erano orgogliosi di lui, che doveva andare via e non averne paura. Nessuno fece cenno a quando sarebbe tornato e nei suoi occhi scuri e grandi si dipinse atra la consapevolezza di un tempo tanto lungo da non volerne proferir parola e di quanto poco valesse la sua: era già tutto deciso. La sera stessa afferrò la sua piccola valigia in pelle consunta, la trascinò oltre la soglia come trascinò se stesso nella frescura notturna. Si lasciò salutare ma non provò altro in quegli istanti se non rabbia, amarezza, abbandono.
Quando il sole fece capolino tra le fronde dei ciliegi in fiore, Veliko e le sue strade malmesse, lo Yantra, il ponte da cui aveva guardato Ivan scagliare sassolini sul pelo dell'acqua erano tanto lontani da inumidirgli le ciglia di dolore. Rimase muto e vigile, con lo sferragliare del treno sulle rotaie ad avvolgerlo come la nebbia i boschi che fuggivano via. Si era concesso il privilegio di vagare con la mente in cerca di quel che lo attendeva al di là dei monti e dell'amabile sospiro del mare, ma neppure la fantasia di un bambino era riuscita a percorrere strade tanto accidentate.
Aveva lasciato affiorare sul viso il turbamento che gli annodava le viscere, la paura attonita di chi il mondo l'ha sempre associato ad un'unica città. Marmi lucidi e pallidi, mura di nuda pietra ed elegante sfarzo ovunque l'occhio potesse posarsi. Le tante fiaccole che ardevano insaziabili gli erano sembrate fredde, spente. Mere imitazioni del caldo sole bulgaro che incendiava Veliko in pomeriggi come quelli.
Nei giorni seguenti Aleksandar quasi non scucì lo sguardo dal soffitto della sua camerata, né per mangiare né per parlare. Scalciò e affondò le unghie senza pietà nelle mani di chi lo trascinò fuori per poi scaricarlo nell'ufficio del direttore senza tanti complimenti. Rimase in piedi, i pugni stretti lungo i fianchi, il fiato accelerato e lo sguardo vitreo ad accusare chi gli sedeva difronte. Chiese senza vergognarsene di essere riportato a casa o lasciato andare, chiese perché. Perché lui, perché lì, a quale scopo. Ottenne in cambio un sorriso sincero, che avrebbe ricordato per molti anni a venire. Non gli vennero date a parole le risposte che bramava, ma poté vederle coi suoi occhi.
Oh, si maledì per averle tanto attese nell'esatto istante in cui l'aria stagnò greve nel suo petto e il respiro si fece affannoso. Procedeva nel buio sentendo correre sulla schiena rivoli di sudore e il cuore scandire i suoi battiti prepotente. Quando seppe, quando vide, non poté far altro che rimanere fermo mentre tutto intorno a lui ruotava vorticosamente.
Urlò quella notte, con tutto il fiato che gli restava, tutto il terrore che aveva. Urlò mentre lacrime gli bagnavano le gote, mentre mani lo spingevano via frettolose.
Urlò e tremò come mai prima, come mai dopo e pianse fino a sfinirsi, a sbriciolarsi nell'ombra come una foglia secca e morta.
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Cor atrum
FantasyAarya, ventenne amante dei libri e salda nelle sue convinzioni, è stata reclutata all'età di appena otto anni in un circolo di giovani guerrieri, gli Hetairoi. Organizzati in roccaforti sotterranee e di origini molto antiche, chiunque venga chiamat...