capitolo tre

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Un pomeriggio tiepido e ventoso si era appena affacciato sulla smeraldina campagna gallese. Nuvole dal cuore grigio si raggrumavano ad est, ma nella loro lenta avanzata gli sbuffi caldi del sole danzavano imperturbabili e solitari mentre il tempo invecchiava precoce per chi sapeva assaporarne i leggeri passi sulla pelle svezzata. Clarissa Burn, avvolta nel suo cappotto crema con la fodera a brandelli, teneva la testa rovesciata sulle spalle e respirava quell'insolito tepore con la rassegnata quiete di chi comprende e teme la breve vita di frangenti mesti e sereni come quelli.

I ricci chiari, agitati dal vento, le carezzavano le gote colorite mentre il cappotto si dibatteva per aprirsi alla forza di quella folata, figlia d'un lungo inverno. Residui di neve ingrigita incombevano a ridosso delle mura di Winslow Manor, la quale si presentava ad occhi estranei come un'anonima villa di campagna appartenente a qualche ricco borghese d'oltremare. Gli abitanti più curiosi del piccolo villaggio a valle sapevano, però, che anni addietro una donna si era trasferita a pianta stabile nel vecchio maniero, probabilmente vedova di un marito che in quanto eredità non avesse certamente tradito inquietudini.

Nessuno vedeva quel che celato rimanere doveva.

I leggeri brividi cui inizialmente Clarissa non aveva dato peso cominciarono a correrle sulla pelle con crescente fervore, perciò la donna costrinse i suoi passi a rientrare. Attraversò i giardini inariditi dal freddo fino alle scalinate in pietra che collegavano la parte anteriore con la facciata posteriore, dove confluivano in un'elegante balconata presidiata da lucerne in rame lavorato. Aveva trascorso intere giornate e notti insonni con le ginocchia strette al petto nel semplice dolore del nulla, che la cingeva con familiare crudezza. C'erano giorni in cui il passato tornava a farle visita e le riempiva la gola e il petto di terrore, giorni in cui avrebbe desiderato sciogliersi, sparire, fondersi alla roccia di quelle pareti fredde.

Si era detta fosse un'arte, quella del dimenticare. Seppellire le proprie colpe ogni giorno da capo e sempre più a fondo, fino a non pensarci, fino a non tornarci.

Oltre la soglia il mogano lucido della tavolata al centro del salone rimandava fiochi i bagliori sfavillanti dei lampadari accuratamente rifiniti e intermittenti in quell'ambiente rude e accogliente. Il vero gioiello, però, era seduto a capotavola. Una figura composta, rigida, avvolta in un abito verde bottiglia che lasciava scoperte le esili braccia. Grandi occhi tanto scuri da sembrare pozzi di ombre e male, un viso lungo e opaco alle luci evanescenti della sala. I lunghi capelli color petrolio erano acconciati in una crocchia ordinata, mentre i dolci lineamenti tradivano quieta attesa. Col solito savoire faire guardò paziente Clarissa sparire oltre la soglia della cucina per poi tornare, minuti dopo, con due tazze di the fumante in porcellana dipinta. Sapeva che la sua sarebbe rimasta lì per ore, a raffreddarsi nel silenzio della notte.

«Mancano dodici lune, Clarissa» ruppe il silenzio, con voce carezzevole e misurata.

Lei non rispose.

«E' pronta».

«Non lo si è mai, Dryden, mai». Troppo poco, si ripeteva.

La donna rise.

«Le tue debolezze ti appartengono» inchiodò lo sguardo in quello di lei, sfuggevole e distratto. Continuò: «sfortunatamente hai dato ad Aarya ciò che a te è sempre mancato, forza d'animo e coraggio».

In molti avrebbero accolto le sue parole con rancore. Non lei.

«Non lo farà» disse, ed affondò il naso nella tazza che teneva fra le mani.

«Non sta a te scegliere, Clarissa. Non stavolta».

Silenzio. «Lo so», con voce spezzata.

Si dipinse, il suo sguardo, di quell'ombra lontana che tanto le pesava e nelle cui bracciavi aveva fatto nido. Winslow Manor divenne polvere e cocci abbandonati mentre il suo corpo tremava lieve al ricordo di corridoi che aveva percorso per anni, voci confuse e tempestose frustare quelle mura, risate gorgoglianti di chi l'odore fetido del tempo che scorre l'ha sentito troppe poche volte.

L'aveva guardata, la sua bambina, sprofondata in un sonno greve. L'indice ad esplorare il contorno delle sue gote arrossate, della fossetta scavata sul labbro superiore, delle piccole mani paffute e calde. Seppe di averle posato sulle spalle il fardello d'un destino che credeva sepolto quando smise di piangere e spalancò i grandi occhi confusi. Erano entrambi di un azzurro-verde chiarissimo, come le acque del lago Lynn, ma l'iride di quello destro era accerchiato per metà da una mezzaluna nera. Aveva mandato giù il nodo in gola e l'aveva stretta a sé con tutta la forza che un essere tanto fragile potesse sopportare. Non dormì per molte notti a venire e quando Dryden si ravvide della sua presenza a Winslow Manor, la giovane donna cullava fra le braccia una bambina e piangeva insieme a lei col viso sepolto fra le dita.

L'aveva lasciata andare, la sua dolce Aarya. Ora ventenne, col broncio di suo padre e le fotografie di una madre che dava per morta. Non aveva mai chiesto perché e come, era cresciuta con storie di guerra e ne era diventata parte tredici anni addietro.

E da quel momento era stata tutta una corsa, uno scorrere del tempo come perle d'un bracciale rotto.

Dryden le aveva concesso di vederla, seduta di spalle e attorniata da libri impolverati. Libri che lei stessa conosceva, narranti di antica magia perduta e guardiani avvolti in mantelli scuri. Un circolo ristretto, privilegiato, originariamente composto dei consiglieri del sovrano, in seguito divenuto forza armata di cavalleria pesante sotto Filippo II, re dell'antico regno macedone. Col trascorrere dei secoli vennero chiamati a raccolta sempre più giovani, di età fra gli otto e i ventotto anni a difendere le Porte del mondo, dell'inferno al di là di esso. Le chiavi per aprirle non erano in ferro, né ottone lavorato, ma fatte di un corpo pallido e caldo.

Clarissa aveva amato se stessa tanto da mettere a tacere la coscienza e solo quando la spada di Damocle era caduta sul collo della figlia aveva compreso che certe conseguenze perseguitano anche al di là della Morte e di ciò che ci tiene in vita.

Aarya sedeva immobile alla sua scrivania, al digiuno dal passato e da quella piaga corrotta. Con le spalle ritte volte ad un viso che l'amava, ombra ricamata nel vetro del grande specchio accanto al letto

Cor atrumDove le storie prendono vita. Scoprilo ora