capitolo sei

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Nello scorrere irrefrenabile dei giorni e del tempo, in uno scrosciare continuo e perverso di pensieri irrilevanti o persino pungenti, si è afferrati da un loro improvviso arrestarsi. Le ore rallentano, le lancette stridono nel silenzio di giornate senza fondo.

La stoffa scura del mantello si posava appena sul terreno freddo, una pozza di sangue che inghiottiva scaglie di ghiaccio appena il vento ne lisciava le pieghe. Soffice neve addolciva il suolo e vorticava nell'aria con grazia feroce, pizzicandogli le guance. Tirò aria in petto, inghiottì l'amaro che sentiva accumularsi in fondo alla gola.

«Non sapevo dovessi venire anche tu».

«Io nemmeno» Aleksandar si sforzò di mantenere salda la voce «ma sono l'unico Capo ala dotato di un QI nella media e, in quanto parte del Consiglio, qualcuno ha avuto la bella pensata di lasciare che mi trascinassero qui».

«Anche per me è bello rivederti» gli cinse la vita in un abbraccio caldo che lui ebbe la prontezza di ricambiare. Era cresciuta la piccola Rose, avevano condiviso lo stesso vagone quella notte in cui tutto era cambiato. Ricordava come l'avesse irritato la sua presenza, l'eccitazione che emanava e il suo straparlare mentre tutto ciò che lui riusciva a provare era una rabbia sorda e viva.

Grandi occhi grigi incastonati su un viso dolce e tondeggiante, contornato da ricci cremisi che le arrivavano fino alla vita. Le sue visioni erano del tutto anomale: non percepiva gli eventi pericolosi, dolorosi o infelici. Vedeva solo ciò che la sua mente filtrava come "sicuro", in un'esplosione di colori che per gli Hetairoi era di ben poco aiuto.

La guardò allontanarsi poco più tardi, i quattro Direttori che aveva accompagnato seguirono la sua ombra con passi frettolosi.

Aleksandar, invece, perse tempo, ciondolando come i rami di un albero alla brezza del mattino. Sulla parete era dipinto un quadro dalle vivaci sfumature di rosso, accompagnate da altre più dense e pallide. All'altezza del suo sguardo una data: 25 giugno 951.

Un pomeriggio fresco, poco gentile nell'affacciarsi su una Llanberis brulicante di vita. Vaporose nuvole avanzavano lente, scendevano a valle in grumi di nebbia che si era sollevata al placarsi della pioggia. Le foreste oltre la città sgranchivano i tronchi bruni, rinvigoriti.

Dryden Lancaster teneva la stoffa della gonna fra le dita nel vano tentativo di evitare che l'orlo si colorisse di fango. Nella sua corsa verso casa tanti sguardi e sorrisi maligni le pugnalarono la schiena, facendola talvolta rabbrividire. Le locande traboccavano uomini più fradici di vino che d'acqua, ultime legioni di mercenari inviate come rinforzi dalla capitale imperiale. La strega tenne gli occhi fissi e lontani, il cuore sbatacchiante contro le costole in una danza dolorante.

Varcata la soglia di casa le sue vesti inzupparono cartacce cadute in terra e piume d'oca ormai del tutto rovinate. Sua madre era seduta a braccia spalancate su una sedia a dondolo al centro del salotto.

«Madre? Vi sentite bene?»

Rise, la sua dolce mamma. E lei l'avrebbe ricordato quel suono quando tutto sarebbe si sarebbe concluso. Settecento anni prima di quel giorno gli Hetairoi nacquero come setta guerriera spartita in legioni, ognuna alle dipendenze di potenti streghe che se ne servivano per presidiare le grandi Porte. Col passare del tempo arrivarono a combattersi l'un l'altro spinti dalle ambizioni delle proprie Comandanti e ora rivendicavano i propri diritti, tra i quali avere accesso al luogo nel quale le Porte venivano custodite da secoli. Nessuno avrebbe mai accettato un tale patto, se non per il fatto che il predestinato fosse umano. Il solo a poterle aprire non aveva nulla in cuore se non puro e semplice terrore.

Nessuno, quindi, seppe più dire come il fato scegliesse le sue vittime. Né magia, né spudorato coraggio o forza era ciò che fosse necessario possedere.

Gli Hetairoi vennero, dopo cinque lunghi anni, riconosciuti come tali e il copione di un'opera eterna fu firmata a lume di candela la notte del 22 giugno 951. Due giorni dopo si assistette all'impensabile: il cadere inesorabile del mondo, si pensò.

Aleksandar lo vedeva dipinto davanti a sé, nello stesso luogo in cui quasi mille settecento anni prima un umano aveva per la prima volta aperto quelle leggendarie Porte di ferro.

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