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L'indomani, col crepuscolo mattutino, il cielo, beato, si schiarì, dunque. Un nuovo giorno era cominciato per gli abitanti che dimoravano, brulicanti, i quartieri opulenti di Las Vegas.
Ma Lee, tuttora sveglio a causa dei pensieri discrepanti, e sì, uno strano senso di colpa, rimase tra le braccia ospitanti del suo letto. Braccia che avevano quel inaspettato odore materno.
Sapevano delle palle di riso che la sua eomma era solita a prepargli per colazione.

Ieri, durante l'algida notte, la donna aveva chiamato dalla casetta nella Corea del Sud. Inutile dire che gli si era formato un groppo in gola dopo averla sentita dopo diverso tempo. Donna, la cui voce aveva trascorso anni della sua vita ad odiare, invano.
Donna, le cui sincere parole erano piombate nella sua testa come la pallottola di una calibro 22.
Come se una terrorista - nota da alcuni americani come una donna musulmana con il velo - gli avesse lanciato una letale bomba dentro alle apparentemente sottili pareti che ricoprivano il suo cervello.

« Adeul, una volta mi dissi che se tu avessi avuto un figlio, lo avresti fatto diventare il più grande giocatore di football. Era un tuo sogno; un tuo desiderio. Ma dimmi.
Che colpe ha avuto tuo padre per aver avuto anche lui un sogno; un desiderio. Lui, un tempo, mi disse: Yeobo, se avremo un figlio, voglio che diventi un grande medico in grado di salvare la vita di molte persone. »

Silenzio. Rimase in silenzio, non riuscendo a muoversi neppure di un centimetro.

Sciocco com'era, aveva passato anni della sua vita ad odiare i suoi genitori per aver voluto che divenisse anche lui un medico. Per aver sempre dato importanza alla reputazione e a cosa pensavano gli altri. Per averlo paragonato ad ogni ragazzo che fosse migliore di lui.
Aveva sempre cercato quel che suo padre e sua madre non erano stati in grado di offrirgli; sempre a rinfacciare i cento difetti e a come avrebbero potuto comportarsi per rendergli la vita più semplice. Perché non potete essere come qualsiasi altro genitore americano? Delle volte si domandava persino come sarebbe stato farsi adottare da dei genitori bianchi.

Era cieco. Era talmente preso nell'elencare cosa non avevano fatto per lui, che aveva completamente scordato, gli innumerevoli sacrifici che quelle due persone, quei miseri esseri umani avevano dovuto fare per lui. E questo sin dalla nascita, no? Ricordando, i primi anni qui negli Stati Uniti furono stati abbastanza tremendi per la famiglia Lee. Il padre era in costante ricerca di lavoro, anche part-time, per portare qualche spicciolo a casa. E la restante famiglia che, in quel frangente di vita, non avendo alcuna scelta, stava rannicchiata, tristemente, sui materassi bianchi che poggiavano sul pavimento impolverato a dire le preghiere.

Casa?

La loro prima abitazione, in affitto, era stato un piccolo monolocale nei pressi di un quartiere malandato dove delinquenti e rifugiati ne facevano parte. Dopo mesi, trascorsi tra ansia, stress e frustrazione, il padre aveva iniziato a lavorare come l'uomo che puliva i bagni delle scuole medie e la madre provava a vendere pietanze coreane, sebbene con poco successo.

Eomma e appa avevano provato fino allo sfinimento, ma alla fine del giorno, erano, anche loro, dei semplici esseri umani.

I suoi occhi miele, solitamente, indifferenti, a tale occasione non lo furono più. Una pungente lacrima rigò il suo viso, dispettosa. Rimirò il suo riflesso tremolante sulla distesa d'acqua gelida, per poi alzare lo sguardo e trovarsi, penoso, in un frammento di vetro. Si sentiva come quei ubriaconi che colmavano le vie incessanti nella buia notte. Una timida luce, che tradiva quelle facce, illuminava le loro infamie vite. Ma Lee era sobrio, con lacrime che sgorgavano, guardava, malinconico, sé da fanciullo.

« Hyung! » gridò.

A quale costo aveva rinunciato alla famiglia?
A quale costo aveva rinunciato all'amore che solo sua madre era in grado di dare?
A quale costo aveva rinunciato al fratello, al suo più grande eroe?

Il suo hyung, così lo aveva sempre chiamato.
Non aveva più sue notizie da diversi anni. Sapeva solo che risiedeva da qualche parte a Gwangju, lavorando come insegnante di storia in una delle Università più importanti.

Rapido, uscì dal bagno, catapultandosi dinnanzi alla scrivania di legno piena di scartoffie. Era certo che avesse tuttora conservato quel pezzettino di carta giallastra risalente a tre anni fa.
Non poteva averlo buttato via.
E mentre una musica dimenticata dal mondo echeggiava fra le quattro mura di quella stanza, le sue mani vagavano, impazienti, da un casetto a un altro.
Melodia, che riportava in mente, momenti oramai divenuti ricordi dei bei tempi passati.

Era un lontano venerdì dell'anno 1999 nel Gwangju.
Il popolo - non solo quello coreano - credeva che lì imminente sarebbe giunta l'apocalisse. Era la comune gentaglia che, ignorante, credeva la razza umana si sarebbe estinta.
Ma Bok e il suo hyung, Ban Do, erano felici. Sì, erano talmente spensierati, vivaci, pimpanti, briosi, che avevano deciso di recarsi al karaoke nei pressi dei fiori di pesco baciati dalla rugiada. Petali pallidi che pian piano prendevano colore in tutte le loro sfumature della polvere di corallo.
« Annyeong! » ridacchiarono.
Non erano soli i due; nella mattina si erano trascinati, con forza, i genitori.
« Eomma, vieni qui, è il tuo turno. »
E sì, cantarono, a gran cuore, canzone dopo canzone. Parola, dopo parola.
Stonavano in pieno giorno, e la madre con quella voce mielosa era capace di riscaldarti il cuore, sebbene marcio come le mele rosse nel canestro di Caravaggio.
E infine, conclusero con You, The One I Can't Have di 뱅크 Bank.

Come ricordava quel momento? Era elegiaco.
Era raggomitolato, con cura, dentro alla propria mente come uno dei ricordi più belli ed emozionanti della sua esistenza. Quel giorno, l'ampio sorriso che si era steso fra le sue labbra rosacee, non si era mai più rivisto una volta qui negli Stati Uniti.

Ironico.
Detto da lui che aveva sempre creduto che i soldi facessero la felicità. Piangere? Laddove una lacrima fosse scivolata, una banconota l'avrebbe asciugata.

Ma tra cento ricordi e cento rimorsi. Eccolo. Il fogliettino di carta sciupato dove era stato scritto il numero di telefono del fratello.
Provava ansia, angoscia. Le mani gli tremavano come una foglia sull'orlo di crollare, proprio come la prima volta a recitare sul set. Quasi sentì mancarsi l'aria.

Sebbene le contrastanti emozioni, digitò il numero, pigiando, infine, il tasto della chiamata. Era fatto e non voleva tornare indietro.

Squillava.
Squilliva e così continuò.

« Chi è? » udì a un tratto, in coreano.

Era pietrificato. Come se il tempo, e con esso il suo cuore, si fosse fermato per un millisecondo. Quella voce.
L'unica voce ch'era mai stato in grado di calmare il mare in tempesta dentro di sé.

« Hyung... » gli uscì in un sussurro a stento udibile.

« Bok? »

Logorato dalla familiare solitudine, i suoi occhi assenti, erano caduti in un sonno eterno. Ma adesso. Quella voce, che tanto gli era il dolce miele, in seguito al gelo inoltrato, li avevano finalmente risvegliati. Come durante la stagione della rinascita, sbocciano i primi fiori coi loro candidi petali, sulla bocca di un bruno commosso, era sbocciato il primo sorriso della giornata.

« Mi sei mancato da morire, hyung. »


DADDY, HYUNLIX Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora