5

1 0 0
                                    

Quando apro gli occhi sento mugolii e movimenti poco decisi tutt'intorno a me. La luce di metà mattina entra dalle finestre rotte, illuminando le schegge di vetro che costellano tutto il pavimento. Stracci, coperte e vestiti sono sparsi ovunque insieme a corpi nudi, erba, cartine, bottiglie -le poche ancora intere- e lattine vuote.
Mi alzo a fatica, ma fin troppo velocemente. Una fitta fortissima mi attraversa le ossa del cranio.
Ho la testa pesante, la gola secca, le pupille ancora dilatate e gli occhi rossi, come mi permette di constatare uno specchio per metà rimasto integro.
I miei capelli sono sparati in tutte le direzioni, il mio alito sa di troppe cose per riuscire ad identificarle tutte.
Ritrovo la finestra da cui siamo entrati ieri e la attraverso, continuando nella direzione inversa.
Percorro diversi vicoletti sgangherati e puzzolenti, e mentre sto per imboccarne un ennesimo sento lo strimpellare di numerosi clacson, quasi in contemporanea, provenire da una delle vie principali.
Incuriosito mi dirigo verso quel coro fastidioso, e in mezzo a tutto lo scompiglio di auto, motorini e biciclette riesco a malapena a scorgere la causa di tutto quel trambusto.
Una ragazza -quella ragazza- è ferma in mezzo alla strada, stesa a terra a fissare il cielo.
Le mie gambe cominciano irrimediabilmente a muoversi verso di lei. Il ritmo del mio passo diventa sempre più veloce, fino a divenire una corsa a zigzag tra i veicoli in sosta tutt'intorno.
Tutto questo caos per me è una ninfa vitale, e non sono in grado di nascondere il sorriso folle che mi increspa le labbra.
Quando la raggiungo lei neanche se ne accorge.
-Se il tuo obiettivo è essere arrestata, sei sulla buona strada!-
Lei sposta lo sguardo su di me, ma esso resta vacuo, vuoto, come se non mi vedesse davvero.
Poi, inaspettatamente, scoppia a ridere. Una risata che non sembra nemmeno vera, piena di contraddizioni e buio com'è.
-Cazzo-
In quel momento compaiono i primi sbirri, quelle figure che mi hanno sempre divertito con le loro divise da scolari e i loro giuramenti da ragazzini patetici.
Li fisso per qualche istante, sorridendo prima di alzare i medi di entrambe le mani nella loro direzione.
Comincio a muovermi all'indietro, correndo poi nella direzione in cui vedo sfrecciare Deika.
Continua a sembrare divertita, gli occhi chiusi, mentre l'aria le fa danzare le ciocche azzurre intorno al viso.
Seguitiamo a correre, e non so cosa le impedisca di schiantarsi, mentre come un moscerino cieco riesce ad evitare ogni ostacolo.
Continuiamo a correre, dicevo, anche quando dietro di noi non avvertiamo più alcuna presenza, finchè i nostri polmoni ce lo permettono, e poi crolliamo, scivolando con la schiena contro un muro.
Quando lei si appoggia alla mia spalla, per la prima volta in vita mia non sento il bisogno impellente di sottrarmi. Anzi la sua presenza sembra del tutto normale, come a riempire un vuoto che non sapevo nemmeno di avere.
-Tu sei mai stato in prigione?-
Lo chiede dopo qualche secondo di silenzio, precedentemente interrotto solo dai nostri respiri affannati.
-Dipende cosa intendi per prigione-
-Qualunque-
-Ci sono nato... in prigione, ci sono vissuto e ci vivrò. La mia testa è una prigione, il mio corpo, il mondo lo sono. Impossibile sfuggirne-
-Pensi che morendo ci si possa liberare?-
-Una volta avrei detto di si, ma non ne sono più tanto sicuro. La morte viene per tutti, e questo... limite assoluto, be', è già di per sé una prigione-
La osservo compiere quel gesto ormai divenuto abitudine, portato dalla vergogna, quel cercare di coprirsi le braccia, i polsi, come se esponessero la sua realtà, e come se si accorgesse solo in quel momento del peso che comporta non poterla condividere. La sua espressione noncurante non concorda con il suo sguardo, con la curvatura appena percettibile alle estremità della sua bocca.
Ci stringiamo a noi per un po', senza parlare, poi ci alziamo e cominciamo a passeggiare uno accanto all'altra.
Spaziamo per alcune viuzze nascoste, ma poi decidiamo di passare nuovamente ad aree più popolate: al centro di un mercato enorme, con banchi pieni di ogni tipologia di cianfrusaglie.
Vedo Deika infilarsi tre la gente e scomparire, riapparire dieci metri più a destra e scomparire di nuovo, rubando qualcosa qua e là come se fosse un'ape intenta nell'impollinazione di un campo di fiori.
Mi raggiunge di nuovo porgendomi una catenina con un ciondolo simile ad una piastrina militare, una camicia nera e un gilet di velluto bordeaux, tutto arrotolato in un unico fagotto stropicciato.
Ci allontaniamo di nuovo, raggiungendo un vicolo dove riusciamo a cambiarci senza essere notati.
I vestiti che indossavamo prima finiscono in un cassonetto. La divisa al manicomio consisteva in magliette bianche e pantaloni logori di tutte le sfumature di giallo e marrone
Deika finisce di infilare un paio di calze a rete e una camicia identica alla mia che le arriva quasi alle ginocchia e poi estrae un paio di jeans per me e una specie di bandana per lei, che si aggiusta intorno alla vita come fosse una cintura.
E' bello non sembrare più uno scappato da un manicomio.
Ci fissiamo per qualche secondo, con espressioni soddisfatte. Le sue ciglia sono bagnate di lacrime, producendo un effetto tipo ombretto sciolto sulle sue palpebre socchiuse.

you are realDove le storie prendono vita. Scoprilo ora