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-Shh-
Io e Deika cerchiamo di acquattarci il più silenziosamente possibile, mentre qui e là riceviamo insulti e ammonimenti.
Siamo riusciti a penetrare in un cinema al piano terra di un alto palazzo, senza biglietto. Siamo sgattaiolati dentro da una porta di servizio.
Posti simili mi sono sempre sembrati una cosa stupida, inutile e patetica, un luogo per perdenti.
Ora proiettano un po' di pubblicità, scritte colorate simbolo di ogni tipo di porcheria, dai nuovi cibi spazzatura, agli innaffiatori da giardino con le luci colorate. Persone soddisfatte e vestite con abiti formali in tinta unita e bambini intenti a ridacchiare contenti come se il mondo non stesse crollando loro intorno tipo pioggia di letame inaugurano le nuove "invenzioni" della seconda metà degli anni sessanta.
Presentano poi la scena iniziale di un film con protagonista una vecchia intenta a raccontare il proprio amore in pieno stile "Romeo e Giulietta".
-Odio i film- La sento borbottare dopo un po'.
Mi fermo per lanciarle un'occhiata confusa.
-Allora perché ci troviamo in un cinema?-
Ovviamente non ricevo risposta.
-Li chiamano realistici ma della realtà non hanno niente. Ti mostrano qualcosa che tanto non potrai mai avere. Ti fanno sembrare semplice e lineare qualcosa di completamente imprevedibile e pieno di svolte-
-Io non ne ho mai visto uno. Quelli che proiettavano in quel posto mi erano negati grazie alla mia ''irrepetibile condotta''-
Mimo le virgolette con le dita per enfatizzare, anche se dubito che Deika lo possa vedere.
-Non ti sei perso granché-
Stiamo zitti per un po', stretti uno accanto all'altro con la nuca appoggiata ai sedili dal retro di metallo.
C'è odore di piedi e sudore, di popcorn salati pesantemente imburrati, zuccherati, affondati nel cioccolato o nel caramello; l'odore di gente che si chiude in una stanza buia per mangiare schifezze e tenere gli occhi puntati su uno schermo per ore intere solo per riuscire a provare qualcosa senza doversi impegnare tanto da leggere un libro.
Restiamo immobili finché un repentino cambio di scena non produce un sussulto generale che fa spaventare anche noi.
Deika sembra distratta da qualcosa, in volto ha quella espressione vuota che ho imparato a temere. Quella che su di lei sembra quasi... fuori luogo, come il pepe a grani su un budino alla vaniglia.
Si guarda le mani, poi il pavimento e il buio intorno a noi, smarrita.
Si rannicchia sempre più, avvolgendosi le gambe con le braccia, tenendosi la testa con le mani. Chiude gli occhi strizzando le palpebre con forza, mentre le sue nocche sbiancano man mano che la stretta aumenta e la pressione si rinforza.
Alcune ciocche azzurrine le coprono il viso, e vedo delle lacrime bagnarle le dita, come fosse il sangue prodotto dal troppo vigore con cui le sue palpebre premono sul bulbo oculare.
Io mi immobilizzo, non sapendo come agire.
Del resto, sono gli stessi gesti che mi sono immaginato di compiere io stesso mentre sotto la doccia chiudevo gli occhi e restavo con la testa sotto il getto dell'acqua, con il rimbombo del suo scorrere a intasarmi le orecchie e le mie braccia a stringersi intorno al mio collo.
Sono gli stessi gesti che ho osservato ogni giorno della mia vita da quando sono nato, la cui consapevolezza è arrivata solo ora.
Prima ridevo, ridevo alla loro debolezza, pensando ai loro cervelli forzati e stanchi, senza speranza, che si riducevano a pezzi sempre più piccoli ogni volta che l'elettricità li attraversava.
Ora invece mi sembra che qualcuno stia stritolando il mio, di cervello. La vedo torturarsi e il dolore che mi sembra di condividere diventa quasi fisico.
Mi avvicino lentamente a lei, rassicurato dal suo non sottrarsi, fino ad avvolgerla con le mie braccia, scheletriche almeno quanto le sue.
Comincia a mormorare parole sconnesse, come se in testa avesse un frullato di libri, letti e dimenticati, che tornano a perseguitarla tutti insieme, senza dare tempo al suo cervello di trovarne l'indice.
Si strofina le dita dalle unghie scarnificate a sangue sugli occhi, asciugandosi convulsamente le lacrime, il cui PH sembra essere diminuito vertiginosamente. La sua discesa segna l'aumento dell'acidità, l'ho scoperto in uno dei miei libri. Sono due grandezze inversamente proporzionali. Così funziona la nostra follia: più ci sembra di esser felici, più tutto sembra essere accogliente e positivo, più la nostra mente degenera, va in tilt, come gli occhi chiari esposti alla luce del sole appena sorto.
Le mie mani lasciano le sue braccia sottili e la sua schiena magra per spostarsi sul suo viso, lentamente, con delicatezza, come se dovessero misurare i filamenti del pistillo di un fiorellino piegato, dai petali quasi trasparenti, al tocco simili a seta.
Cerco di ottenere la sua attenzione, il suo sguardo. Le tengo ferme le mani, allontanandole una dall'altra perché la smetta di strofinarsi la pelle dei polsi.
-Ehi, ehi, smettila... Devi calmarti, ora-
Lei spalanca gli occhi e li punta dritti nei miei, come se di colpo fossimo tornati al nostro primo incontro. Torna tranquilla.
-Me ne voglio andare-
Prima che io possa anche solo registrare le sue parole la vedo alzarsi, sgusciare fuori dalla stanza e sparire su per una scalinata.
La seguo il più in fretta possibile, mentre -per la seconda volta nel giro di... qualche ora?- veniamo inseguiti da un uomo in divisa, probabilmente parte dello staff di sala.
Riesco a tenerle dietro a malapena, nonostante la lunghezza considerevolissima delle mie gambe.
Dopo aver perso il conto delle rampe di scale, aver seminato il nostro inseguitore ed essere quasi stramazzato a terra in più occasioni arrivo di fronte ad una porta lasciata aperta verso niente meno che il tetto dell'edificio.
Quando scovo la sua sagoma slanciata dalle calze bucherellate e dai capelli arruffati sulla nuca Deika si è già arrampicata sul muretto e sta ritta immobile, a stagliarsi nel vuoto con le braccia alzate, come Gesù in croce o come un funambolo inesperto. Le scarpe sono abbandonate poco dietro di lei, e a piedi nudi le sue dita sporgono, ripiegate sul calcestruzzo in modo da darle stabilità.
Ora posso immaginare perfettamente il suo viso, i suoi occhi affogati nelle lacrime, lei con il fiatone, mentre cerca di recuperare il fiato perso.
-Ora mi basterebbe un solo passo. Cadrei e non mi vedresti mai più. Nessuno saprebbe mai chi sono stata e perché. E' questo che mi spaventa e mi affascina, la facilità con cui potrei cancellare la mia esistenza senza che nessuno se ne preoccupi-
Sento i suoi singhiozzi.
Mi sembra di vedere una sua lacrima che vola giù, nel vuoto, come una singola goccia di pioggia mai evaporata, dolore condensato.
-E' per questo che tutti sono costantemente alla ricerca di quell'inchiostro indelebile che non permetterà a nulla di essere cancellato. Ma nessuno riesce a capire che non serve a niente quell'inchiostro, se non c'è nulla da scrivere. Quello che ognuno dovrebbe fare sarebbe muoversi e incarnare la propria vita mentre quella gli corre dinanzi, senza preoccuparsi del dopo o di quello che lascerà dietro di sé-
-E se io non ci riuscissi? Se muoversi per me fosse impossibile?-
-Se avessi una risposta non saremmo qui, ti pare?-
Mi avvicino a lei lentamente, cercando di non farmi notare, e la raggiungo, allungando una mano verso di lei per aiutarla a scendere.
Lei non dà alcun segno di averla notata, e la vedo lasciarsi cadere all'indietro, verso il tetto, verso di me.
Riesco a prenderla per un soffio, e la trovo ancora più leggera di quanto potessi immaginare.
Subito sentiamo aprire la porta che dà sulle scale, mentre l'uomo in uniforme esce sul cemento seguito da altri due tizi sicuramente allertati da lui.
Non ho bisogno di ragionare. Mi volto e in un soffio scompaio dietro uno dei quattro gabbiotti che ingombrano il tetto, stringendola a me con un braccio.
Io e Deika siamo più vicini che mai, ora, mentre lei rimane appiattita contro il mio petto, le gambe snelle parallele alle mie.
Penso per la prima volta in vita mia riesco a capire quei pervertiti di ragazzini che ho incontrato in tutti questi anni, che parlavano degli attributi femminili in continuazione. Si raccontavano tra loro le volte che se l'erano sentito duro ed erano corsi a farsi una sega.
Io neanche le ho mai guardate, le ragazze, ma quella che ho accanto non è solo la più folle, la più incasinata, la più strana ed impossibile, ma è anche l'unica che potrei mai definire sexy, oltre che bella. Le linee affilate del volto, il modo in cui con gli occhi riesce ad imbambolarti, quella ruga che sorge sulla sua fronte equivalente ad un segnale di uragano, il modo in cui parla di cose così sbagliate in modo così giusto.
E' come una droga, è tossica, sai che ti farà male, che te lo sta già facendo, e non sai perché continui ad usarne, ma lo fai, perché in quel momento ti sembra l'unica alternativa tollerabile.
Mi chiamano sociopatico, disturbato affettivamente, antisociale, e in mille altri modi diversi. Non So cosa siano i sentimenti positivi, e non so neanche se questo lo sia.
La voglia di ferirla, di prendermi gioco di lei, di giocare con i suoi sentimenti, di usarla, di abbandonarla per poi tornare e ricominciare tutto da capo sparisce ogni volta che poso gli occhi su di lei, come se la mia mente non fosse capace di associare il male, il mio male, con la sua figura.
Mi diverte, mi eccita, mi provoca, ma quando la vedo in tutta la sua debolezza, quando la vedo sciogliersi sotto il suo stesso bruciare, allora mi sembra di soffrire fisicamente, di non riuscire a concepire di vivere senza.

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