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La tengo per mano, i palmi scivolosi per il sudore, le dita incrostate di sangue perennemente raggrumato sotto le unghie.
Ridiamo senza ritegno, mentre attraversiamo i corridoi tra le aule deserte, le scarpe rumorose sul pavimento in pietra.
Apriamo tutte le porte che troviamo, entriamo solo nelle stanze più interessanti.
Cerco l'aula di pittura. Voglio dipingere con colori veri, pennelli a setola morbida, non con le dita e il fil di ferro.
Voglio sentire la tempera tra le dita, voglio sapere cosa si prova a stringere in mano un pennello che non ti ferisce, voglio vedere quello che le mie mani sono in grado di fare, quando hanno a disposizione tutti i colori che lì dentro non ho mai realmente visto, assaporato.
Mi sento come euforico, le dita e le labbra mi tremano. Ho il fuoco sottopelle e nei polmoni, ma non capisco se me lo sto immaginando o meno.
Cerco di deglutire, svolto in un altro corridoio, sento il cuore quasi tachicardico.
Entro nell'ennesima aula e finalmente li vedo: i cavalletti e le tele non ancora incorniciate, i pennelli e i tubetti abbandonati a ogni angolo. Il pavimento è rivestito di nylon, per impedire alle piastrelle di ricoprirsi di qualunque sostanza sfugga dalla tela.
Tavole in legno imbiancate a gesso, tele candide e cera secca sono in ogni angolo, e vedo già formarsi nella mia mente tutto quello che sarei in grado di trasporre su ogni superficie.
Entro rallentando il passo, prendo della vernice, un pennello e mi avvicino al primo sostegno che trovo, trovandomi di fronte il bianco completo intervallato dall'intrecciarsi dei filamenti.
In quel momento, con il pennello in mano, mi blocco. La mia mente si blocca.
Il respiro rallenta per poi cominciare ad accelerare di nuovo, con impeto maggiore, come un singolo e solitario alito di vento capace di far cadere non più di qualche foglia, ma che lascia un'impronta.
Le lancio uno sguardo, e la vedo stesa a terra a fissare il soffitto dipinto come un cielo stellato.
-E' il colore sbagliato-
Io guardo il pennello che ho in mano, poi la tela e infine lei, confuso.
-Il cielo, è del colore sbagliato-
La guardo chiudere gli occhi e lasciare cadere le gambe che fino a quel momento teneva piegate. Mi ricordo di quell'ultima notte nel giardino del manicomio, e di come avevo osservato il cielo oltre le chiome degli alberi. Ricordo quel giorno in mezzo alla strada, l'asfalto incandescente.
-Il colore del cielo notturno è un blu che sembra nero ma non lo è, un blu più profondo degli altri. Non è blu e non è nero, è solo il vuoto senza il sole ad illuminarlo-
-Usciamo-
Lo dico senza pensarci, perché d'un tratto voglio vedere il cielo fuori, quello buio e impossibile da riprodurre.
Per qualche momento non vedo più niente, poi mi osservo correre all'impazzata in corridoio, e rompere una finestra e uscire, salire sul tetto.
A quel punto urlo, ululo, con tutto il fiato che ho in corpo.
Distolgo lo sguardo, guardo in giù, verso il cortile.
Faccio un passo, e poi un altro, sento il vuoto al mio fianco, mi siedo. Guardo giù e subito dopo sento l'aria, sento la sua voce che ripete come si possa scomparire con velocità stupefacente senza che nessuno se ne accorga.
Mi vedo in quella posa, come cercando di riprodurre un angelo di neve sulle piastrelle sporche del mio stesso sangue, ma poi cambio idea, decido di deglutire e rifare la strada a ritroso, tornare dentro, de lei.

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